Volenti o nolenti viviamo in una civiltà con rapido consumo di immagini. Attraverso Internet, la televisione, la pubblicità, siamo invasi da una sollecitazione senza precedenti di messaggi audio-visivi, da una molteplicità infinita d’informazioni che creano una sorta di frastuono, di stordimento e di rumore in grado di attraversare i diversi spetti della vita dell’uomo d’oggi. In questo contesto, una riflessione sullo sguardo, che permetta di entrare in profondità nel significato dell’immagine, sembra oggi più che mai necessaria.
Con questo intento la Galleria San Fedele propone una mostra – a cura di Andrea Dall’Asta S.I. e di Gigliola Foschi – che trae origine da una serie di fotografie realizzate durante un laboratorio di fotografia digitale nel carcere di Milano San Vittore nell’autunno 2009 (tenuto dai curatori e da Donatello Occhibianco), accostate ad alcune opere di un artista contemporaneo: William Xerra. A complemento della mostra, alcune incisioni antiche di soggetto sacro e un dipinto inedito del XVI secolo.
I detenuti hanno interpretato queste narrazioni, le hanno messe in scena e poi fotografate. Hanno fatto esperienza della loro dimensione di senso, come quando Ignazio di Loyola nel libretto degli Esercizi spirituali invita il fedele a immaginarsi nei luoghi frequentati da Gesù e a rappresentarsi nelle diverse situazioni, per poi riflettere su se stesso, in relazione a quanto è suggerito dal racconto, dai vari personaggi, dalle loro azioni. In questo immedesimarsi della scena, il fedele è chiamato ad ascoltarsi, a ri-conoscersi, a ri-vedersi. Vedere significa, infatti, partecipare alla narrazione, implicarsi. Vedere è sempre un… vedersi.
Per i corsisti, la messa in scena dei racconti di Caino e Abele o del cieco di Gerico è stata in questo modo l‘occasione per porsi in discussione, per mettersi in gioco… Rappresentando una scena tratta da un soggetto biblico, interpretandola, facendone esperienza, hanno gettato una luce sulla loro vita. Attraverso una narrazione vissuta in prima persona hanno attualizzato il racconto e, appropriandosene, hanno gettato un nuovo sguardo sulla loro esistenza. Per converso anche il racconto ha ricevuto una nuova luce: è stato a sua volta attualizzato, ha acquisito una nuova dimensione di senso. Si è incarnato nella vita di persone di oggi.
Talvolta Xerra pone sulle tele una scritta. Nella sua Crocifissione compare la scritta “Io mento”. Perché porre questo dubbio, nel momento stesso in cui il frammento della tela è ricomposta dall’autore in una nuova reintegrazione di senso? È come se da un lato Xerra ci consegnasse il suo sguardo, chiedendo di accoglierlo, mentre dall’altro ci invitasse a fare attenzione, a usare prudenza, a sostare, a meditare. Quasi fosse impossibile decidere la verità del gesto che sta compiendo. Quasi fosse la confessione di una drammatica fragilità, di un’inquietante insicurezza… In che modo stabilire se sta dicendo la verità, nel momento stesso in cui afferma di mentire? Sembra che l’artista si proponga di farci riflettere sul rapporto verità/menzogna che attraversa i diversi aspetti della vita. Come se stesse parlando di se stesso, del suo rapporto col mondo, con la fede.
Sia nelle foto dei detenuti che nelle opere di Xerra, frammenti di vita, brani di storia sono dunque re-interpretati, ri-attualizzati e ri-vissuti. Antiche narrazioni diventano racconti dell’uomo di oggi, si ripresentano ai nostri sguardi e ci interrogano dal passato. A partire dalla loro “rappresentazione”, i corsisti di San Vittore e William Xerra hanno gettato una luce sulla loro vita e al tempo stesso hanno offerto un nuovo sguardo sui soggetti interpretati. È la luce che scaturisce dal rapporto tra arte e vita, oggi troppo spesso dimenticato. Da questa luce nascono le loro immagini. È questo un invito per riflettere sul nostro sguardo, sulla luce che riconosciamo in noi stessi e al tempo stesso gettiamo sulle narrazioni del mondo.
Andrea Dall’Asta S.I.
Direttore Galleria San Fedele
L’illuminazione dello sguardo.
William Xerra e detenuti di San Vittore in dialogo