I DOLMEN
I DOLMEN
William Xerra incontra il dolmen alla metà degli anni Settanta, quando riceve l’incarico di realizzare un monumento ai Caduti della Resistenza dal sindaco di allora, Felice Trabacchi e dall’Anpi, che era presieduto da Ludovico Muratori. La strada per la quale l’artista perviene all’adozione di quella forma così antica, archetipa del nostro pensare, è lastricata di molte tessere.
C’è una ragione antropologica, naturalmente, che afferisce all’origine dei dolmen o di altre analoghe testimonianze megalitiche della preistoria che rinviano alla sfera del sacro, quindi nella necessità di stabilire una relazione con l’altro mondo. Il dolmen, in particolare, nato come monumento funerario dall’allestimento di almeno tre monoliti – due posati in verticale e un terzo appoggiato sulla loro sommità come architrave –denuncia questa funzione a partire proprio dalla sua forma di portale, luogo del passaggio, soglia che pone l’uomo in comunicazione con il cielo degli dei o il regno dei morti (così come tra il passato e il futuro; il qui e l’altrove). Sappiamo che nella sepoltura risiede il primo gesto culturale dell’uomo e che la tomba, linea d’incontro tra vita e morte, è insieme un ricovero e un segnale: un occultamento che in realtà rileva, espone e continuamente rimemora.
Questa la ragione sullo sfondo della scelta di Xerra per il dolmen. Del resto, l’artista aveva già dimostrato interesse per una certa vitalità “terrestre” del sacro. Aveva infatti realizzato nel 1972 una collezione di “lapidi” e abbozzato fin d’allora il suo segno più celebre, il “vive”. E che altro è un “vive” se non la denuncia di una morte superata in direzione della vita? (Ricordiamolo: la parola è utilizzata come convenzione in tipografia laddove si vuole ripristinare, riammettere, una parola in precedenza cancellata perché ritenuta errata, fuori luogo. Si mette “vive” sulla cancellatura per ripristinarla.)
Ragioni sullo sfondo, abbiamo detto, perché in primo piano ve n’era un’altra più legata al suo mestiere di artista. Ed era la volontà di realizzare un “anti-monumento”, vale a dire un’opera opposta alla tradizione monumentale italiana di stile ancora risorgimentale. Come lo era, per esempio, il monumento al Partigiano di Marino Mazzacurati (1955), a Parma, vicino alla Pilotta: sopra una roccia si alza fiero un giovane partigiano armato; ai piedi della roccia, ne giace un altro caduto. Xerra andò in senso contrario alla tradizione: levò di mezzo le figure idealizzate e impose al loro posto una forma essenziale e talmente antica e così semplice, così basilare, da porsi in realtà all’origine di ogni monumento di sempre. E fu appunto il dolmen, chiamato a rappresentare la nascita della nuova Italia dai morti della Resistenza al nazifascismo, eretto all’inizio di stradone Farnese (o alla fine, secondo l’origine della via). Più semplice di così si muore, eppure, quando ai piacentini fu chiaro che quello era il monumento (inaugurato il 25 aprile del 1976), le reazioni furono furibonde a destra come a sinistra. E qualcuno si aspettava che sopra il dolmen dovesse andare la statua del partigiano. Il solo a esserne contento fu il comandante Muro, cioè Muratori. Non molti anni fa un solerte funzionario comunale utilizzò uno dei due montanti come sostegno per la centralina del semaforo. E pazienza. Oggi, soprattutto dopo un’iniziativa pubblica nel 2006, per il suo trentesimo, il dolmen ha preso il posto di preminenza che gli compete nel paesaggio artistico piacentino.
Nel 2010 è la volta dell’intervento a Castelsangiovanni. L’operazione fu eseguita a partire da un manufatto preesistente, posto in opera dal Comune all’incrocio tra le strade lombarde e la piacentina. Si tratta di una costruzione in ferro disegnata da uno studio torinese in forma di porta, dovendo per l’appunto simboleggiare la via d’ingresso alla Valtidone. Xerra, seguendo una prassi consueta dell’arte di oggi, si è appropriato di un oggetto che aveva in sé i tratti del dolmen per reinterpretarlo e, in definitiva, trasformarlo in un’altra opera. Trentacinque anni non passano mai per niente e quindi, cosicché, in condizioni culturali e storiche profondamente mutate, egli ha utilizzato il manufatto come un dolmen profondamente diverso dal primo: mentre quello del ‘75-’76 era immerso nella cultura artistica del tempo, incentrata sul valore evocativo di materiali originarî e poveri, come lo sono i materiali naturali: legno, pietra, ferro, vetro, luce; e spesso utilizzando il territorio come supporto dell’opera; quello del 2010 richiama la forma-dolmen attraverso l’astrazione, utilizza un materiale impersonale trattato in modo industriale; diventa citazione di un dolmen, marchio grafico. E lì Xerra decide di mutarlo di segno inserendovi un elemento naturale in opposizione alla natura fortemente tecnica dell’oggetto preesistente, e così pianta l’albero al centro affinché vi cresca dentro. L’albero apre la porta e insieme la chiude; modifica l’oggetto e lo ingloba, ne muta la visibilità stagione dopo stagione.
Il passaggio tra il primo e il secondo dolmen è di sostanza, non solo di forma: non si tratta più di celebrare la nascita di una nazione dal sacrificio dei suoi eroi; si tratta, più dimessamente ma non senza fermezza, di indicare l’inizio di una regione, quindi di una appartenenza culturale, quindi di una tradizione.
Due anni dopo quella committenza arriva la terza. La Lega italiana per la lotta contro il cancro chiede la realizzazione di un’opera davanti all’hospice piacentino, su un terreno che costeggia la tangenziale sud. E data la natura del luogo non poteva essere che un altro dolmen a contrassegnarlo, e Xerra progetta un dolmen immateriale. Nella definizione del Ministero della Sanità, l’hospice è un “luogo d’accoglienza e ricovero temporaneo, nel quale il paziente viene accompagnato nelle ultime fasi della sua vita con un appropriato sostegno medico, psicologico e spirituale affinché le viva con dignità nel modo meno traumatico e doloroso possibile”. Perciò il terzo dolmen è costruito con la luce e con la scrittura, quattro versi tracciati al neon: “Cancellare neri contorni / raccontare sogni nella / eco dei giorni scrivere / il colore del cielo” (ispirati a una poesia di Vittorio Sereni). Versi dissolventi che diventano lievi di parola in parola da “neri contorni” a “cielo”, fisicamente sorretti da un traliccio di acciaio inossidabile così esiguo, in relazione alla frase, da attenuarsi fino a scomparire quando il neon si accende.
Così è cambiato il dolmen: dalla pietra antica, greve nella sua forma archetipa e nel suo materiale grezzo e terrestre, è passato alla forma astratta di un segno solo estetico e solo politico; per passare infine alla scrittura immateriale della luce: la gravità dominava il primo; la leggerezza orienta il terzo.
Eugenio Gazzola
Libertà, 6/12/2012
Analisi artistica e sociologica delle tre opere: il monumento ai Caduti della Resistenza, la porta della Valtidone e l’ingresso alla Casa di Iris
I dolmen di Xerra: dalla gravità alla leggerezza