Una mostra in cui convivono una serie di fotografie scattate da alcuni detenuti di San Vittore e un’ampia selezione di opere pittoriche di William Xerra. Niente, in apparenza, sembrerebbe avvicinare le loro opere: da una parte ci sono delle fotografie, e per di più neppure d’autore, dall’altra quadri che sarebbe arduo non definire opere d’arte. Eppure un tenace filo rosso pone in relazione tali opere e le fa dialogare fra loro. Che cosa le avvicina nonostante ogni evidente diversità? Per cercare di rispondere a questa domanda bisogna avanzare per gradi, passo dopo passo.

Va detto anzitutto che i detenuti di San Vittore non hanno fotografato il raggio e le celle in cui si trovavano, né hanno voluto raccontare la loro condizione di carcerati. Guidati da Andrea Dall’Asta S.I. hanno invece messo in scena alcuni racconti biblici – Caino e Abele, il cieco di Gerico… – interpretando loro stessi i vari personaggi; quindi hanno fotografato le scene più simboliche e cariche di senso. Secondo l’insegnamento degli Esercizi Spirituali di Ignazio di Loyola, i detenuti sono stati invitati a immaginarsi nel mondo della Bibbia e a ricostruire con il loro stesso corpo quelle storie esemplari che le Scritture narrano solo con tratti sintetici ma sempre incisivi. Per Ignazio – scrive Roland Barthes – “le cose più astratte devono trovare qualche movimento materiale in cui dipingersi e finire come quadro vivente. (…) La sostanza, la forza della materialità, la cifra immediata del desiderio, è, beninteso, il corpo umano; corpo incessantemente mobilitato nell’immagine del gioco stesso dell’imitazione, che stabilisce un’analogia letterale fra la corporeità dell’esercitante e quella di Cristo, di cui si tratta di ritrovare l’esistenza, quasi fisiologica, attraverso un’anamnesi personale”.

I detenuti, con la forza dell’immaginazione, si sono quindi trasformati in “quadri viventi” così da rivivere intimamente i racconti biblici. Ma c’è di più. In quanto impronte di un evento preciso accaduto davanti alla macchina fotografica, le loro immagini hanno anche riportato all’oggi la narrazione biblica, l’hanno riattualizzata, ripresentificata davanti ai nostri occhi. Tali immagini di conseguenza realizzano una congiunzione di tempi eterogenei in cui passato e presente si relazionano e si rinviano a vicenda senza cesure. Ogni immagine – sostiene Ignazio – è efficace nella misura in cui rende presente il rappresentato, ponendolo non solo di fronte a noi, ma con noi, per noi. Un discorso che mantiene ovviamente tutta la sua validità anche quando l’immagine non è più una pittura ma una fotografia.

Come ha scritto Roland Barthes nel suo celebre libro La camera chiara, una fotografia testimonia sempre un “è stato”, un evento colto in una preciso memento del passato. Ma se spesso fatichiamo a ricordarcene, è perché nelle fotografie predomina la loro capacità di rendere presente ciò che rappresentano, come se nelle immagini esistesse una forza che d
al passato le sospinge verso l’oggi. Guardiamo ad esempio una fotografia storica, chiaramente testimone di un “è stato”, come Spinner in New England Mill, di Lewis W. Hine: certo, capiamo subito che essa si riferisce a un tempo ormai trascorso, in cui negli Stati Uniti non era vietato lo sfruttamento del lavoro minorile. Al contempo, però, quella bambina che l’autore ha ritratto, ci guarda fissa negli occhi non appena incrociamo il suo sguardo, e così facendo ci interpella, ci invita a identificarci con la sua sorte e le sue sofferenze. Lei certo rimane immersa nel passato, in quel lontano 1913 indicato dalla didascalia della fotografia, ma nel contempo è lì, presenta davanti a noi. Carica di potenza fantasmatica, una simile immagine trasforma la figura rappresentata in una presenza vivente, che si pone proprio di fronte a noi, pur continuando a indicare la sua stessa assenza. Dunque passato e presente si incrociano, si interpongono l’uno sull’altro, fino a creare un tutt’uno in cui convivono tempi eterogenei.

Nel caso però delle immagini dei detenuti di San Vittore, tale doppia temporalità – insita nel carattere di impronta proprio della fotografia – assume una dislocazione diversa. Diversamente dall’immagine di Hine, queste non rimandano infatti al tempo storico dello scatto: non hanno un intento sociale, non documentano la situazione del raggio e dei suoi detenuti; per di più – grazie all’aiuto di Photoshop – presentano spesso fondali scuri e un po’ “caravaggeschi” che di fatto rendono meno evidente il luogo in cui sono avvenute le riprese. Se mai, grazie alla loro forza illusionistica, rinviano a un tempo ancestrale, sospeso nel passato: il tempo biblico di quando Caino «si avventò contro Abele, suo fratello, e l’uccise”; il tempo evangelico di quando il cieco di Gerico “udito che chi passava era Gesù il Nazareno, si mise a gridare e a dire: “Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me!”». Ma, grazie alle immedesimazioni dei detenuti e alle loro fotografie, ecco che questo tempo biblico, questi eventi antichi, primari, si ripresentano ai nostri occhi come se fossero avvenuti nel contempo qui e ora, davanti a noi.

Attraverso queste narrazioni bibliche vissute in prima persona, i detenuti sono dunque riusciti ad attualizzare tali racconti, a incanalarli nelle loro vita e nelle loro immagini, e dunque a renderli nuovamente vivi, efficaci, capaci di interpellare noi e loro. Mettendo in scena e poi fotografando queste storie, infatti, i detenuti hanno potuto gettare anche un nuovo sguardo sulla loro esistenza. Hanno avvertito dentro loro stessi il morso dell’invidia, la forza del perdono e della giustizia, il dilemma dell’accoglienza o del rifiuto, la grazia della fede, il dramma della sua assenza.

Seppure su un piano assolutamente non fotografico anche le opere dell’artista William Xerra hanno alla loro base un “prelievo di realtà”. Un “prelievo” che nasce da un incontro e si trasforma in una gesto che salva e raccoglie. Ogni lavoro esposto in mostra trova infatti il suo punto di partenza in un dipinto antico, magari un semplice frammento, che l’autore ha visto e acquistato in un mercatino antiquario. Un vedere, un trovare, il suo, che ha il sapore di un incontro intenso, misterioso ed emozionante, in cui l’oggetto trovato che egli guarda al contempo lo ri-guarda e risuona dentro di lui tanto da spingerlo a salvarlo, a raccoglierlo per poi portarlo in studio, incollarlo su una nuova tela e ridargli nuova vita, tramite una serie di interventi: dipingere attorno a esso, cancellarne alcune parti, aggiungervi scritte…

L’ala di un angelo, il volto di un Cristo in croce non gli appaiono sotto la veste di pitture più o meno riuscite, ma come qualcosa di vivo che è davanti a lui, ma anche dentro di lui. Tanto “vivo” da condurlo, quasi venisse sospinto dalla stessa forza misteriosa insita in tali frammenti, ad aggiungere la scritta “vive”. Scritta che in varie opere posteriori, egli modifica in un “io mento”: sorta di grido ambiguo e contraddittorio che crea una tensione irrisolta tra la parola e la figura misteriosa, nascosta dalla pittura, di cui emerge solo una mano protesa verso di noi (Crocifissione, 1989-2002 e Sul vestito gettano la sorte, 1984-2002). Chi mente? Siamo tutti noi, oggi, a mentire? È l’artista stesso? È la persona parzialmente raffigurata nel quadro? O è addirittura un personaggio biblico celato nella pittura che riesce a far emergere la sua voce dal passato? Reiterata su varie opere, tale frase enigmatica finisce per assumere una forza profetica e arcaica, per imporsi lapidaria sul vociare indistinto della contemporaneità. Attorniata da uno spazio di silenzio, essa emerge dal blu cosmico della pittura come una parola risalita dalle profondità del tempo. Così come è “vivo” il frammento di pittura immerso nei suoi quadri, così la frase “io mento” assume un’arcana intensità, ci interroga, si presenta come una voce altrettanto viva che avanza verso di noi e che non possiamo eludere. Xerra quindi compie costantemente un gesto artistico grazie al quale frasi e opere antiche si ripresentano ai nostri occhi, vengono riattualizzate per interrogarci dal passato.

I frammenti di pitture inserite nei suoi dipinti escono così dalla logica della rappresentazione per assumere un valore di presenza, come una sorta di ready-made inattuale. In esse non vediamo più solo un’opera del passato dipinta da un oscuro artista, quanto la vera impronta di una mano, di un Cristo crocifisso che pare emergere come un’apparizione, come un’immagine reliquia. Tali prelievi di immagini sacre si offrono cioè sotto l’aspetto di ritratti-impronta, come accade per il Volto Santo impresso sul telo della Sindone e della Veronica. L’ostensione in tali impronte divine, in cui i tratti del volto di Cristo si possono solo intravedere, sottostà a una sorta di paradosso visivo, per cui quanto viene mostrato è al contempo presente e distante, si offre alla vista e tuttavia si ritrae. Come scrive il filosofo Georges Didi-Huberman, il paradigma dell’impronta consiste nel «duplicare legittimamente, ossia disseminare l’unico; avvicinare ciò che è lontano fino alla sensazione tattile (traccia); allontanare il contatto fino alla distanza insormontabile (aura) del volto in quanto tale».

Allo stesso modo, nelle opere di Xerra i volti e i corpi sacri si trasformano in oggetti visivi, in impronte, che insieme appaiono e si allontanano, si disvelano e si nascondono dietro una velatura. Un velo in qualche caso non solo simbolico o metaforico, ma anche reale. Nell’opera La metà del cuore (1993) Xerra letteralmente nasconde, dietro una carta-velo, una parte del volto del Cristo così come in altri lavoro rammenti di mani o parti di corpi, paiono assediati da una pittura che le contorna e le lambisce con stratificazioni di colore. Ma una simile operazione di nascondimento è paradossalmente anche un far apparire, un’ostensione grazie alla quale il volto di Gesù ci guarda e ci riguarda contemporaneamente nel presente e dal passato.

Sia le opere dei detenuti che quelle di William Xerra (pur non essendo comparabili da un punto di vista artistico) nascono dunque da atteggiamenti volutamente anacronistici che, anziché confrontarsi direttamente con i problemi dell’uomo contemporaneo, li affrontano immergendosi nel passato biblico per poi risalire verso l’oggi. Un passato, non più visto come qualcosa di inerte e di remoto, ma come qualcosa di vivente che può rivolgersi con forza alle nostre coscienze, qui e ora.


Gigliola Foschi

Storico e critico della fotografia

 

Immagini come presenze