Grottaferrata

Districarsi da Roma e imboccare l’Appia Nuova, da questa immettersi nella Tuscolana, cominciando così a salire dolcemente verso i Colli, ricchi di vigne e di pini italici; a 20 km circa da Piazza Venezia entrare in Grottaferrata, che fu ed è villeggiatura ideale per i romani fini, da Cicerone a noi. Ma può essere anche meta della gita di un giorno, che vi assicuro agevole, rasserenante e istruttiva.

Scusate l’aggettivo ultimo, piuttosto obsoleto, ma l’Abbazia, che della cittadina è il monumento più illustre, risulta tanto più istruttiva in quanto, entro la cinta delle mura eretta da Giulio
II a sua difesa, i monaci di rito bizantino che da mille anni vi dimorano, anche in questo dannato tempo consumistico, con gran naturalezza vi pregano in greco e curano una biblioteca e un museo, una tipografia e un centro di restauro, un orto e un giardino. Insomma, qui ci si può raccogliere nell’amore di Dio cantandone le lodi sull’onda di musiche più antiche del gregoriano, chinare sui manoscritti per medicarne i fogli, sulle zolle per mondarne dalle erbacce le verdure “geometrico more” seminate.

Con le lunghe barbe, dalla Calabria (cui erano approdati da Bisanzio), guidati da San Nilo all’alba del millennio i monaci qui giunsero e s’insediarono, qui sul finire del millennio vivono e conservano una regola che accetta quanto la storia, l’arte, non sempre a loro consone, durante i secoli hanno nel loro territorio lasciato. Che è moltissimo, ma vi consiglierei di vedere soprattutto il criptoportico che apparteneva alla villa sulle cui rovine pagane sorse l’Abbazia, prospettiva di archi aperti sulla pianura in cui Roma sfuma luminosa come in un Turner.

E ancora: il campanile romanico, la chiesa in cui i sublimi marmi bizantini e le decorazioni berniniane e gli affreschi del Domenichino coabitano curiosamente senza stridori; il museo e la biblioteca che conservano pezzi rari, alcuni stupendi, da stele funerarie attiche ed ellenistiche a codici remotissimi… In uno dei cortili c’è una palma il cui dritto tronco è appena intaccato da ferite inferte da una bomba durante l’ultima guerra. La pianta ha resistito, svetta bellissima, auguriamoci che l’Abbazia e i suoi esemplari abitatori possano resistere altrettanto vittoriosamente ai pericoli che il prossimo millennio sembra riservare agli umani.


“L’Espresso”, 17 aprile 1983

 
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