Nel fare volontariato penitenziario uno dei primi atteggiamenti di cui il volontario deve poter disporre con naturalezza e trasparenza nella relazione con la persona detenuta è: “non giudicare”. È una meta che spesso il volontario raggiunge dopo una lunga esperienza fatta di tentativi e di errori, di qualche successo, cocenti delusioni e sorprese positive. È una via difficile da percorrere per chiunque si avvii sulla via di questo servizio perché richiede una grande libertà interiore che ti fa guardare al futuro con speranza incrollabile, non condizionata dalla storia passata dalla persona detenuta che hai di fronte, grande prudenza e autocontrollo, intelligenza e determinazione per superare i tanti ostacoli che si incontrano per giungere al reinserimento nella società, e soprattutto un grande amore per la persona e fiducia nelle sue capacità di rinnovamento. È un cammino lungo, quasi ascetico, soprattutto per gli ostacoli interiori, più che per quelli esterni, che però può essere facilitato dall’iniziare il proprio servizio insieme a un altro volontario che incontra i detenuti già da anni. Così, guardando il suo modo di comportarsi, si impara prima.

La difficoltà, soprattutto all’inizio di questa esperienza, sta anche nel fatto che molto spesso il detenuto è una persona che ha una sensibilità spiccatissima a “sentire” se il volontario che ha davanti lo giudica o no. È una sensibilità che gli nasce dentro dopo un lungo itinerario di sofferenza che il carcere non gli risparmia, mai. A lui non servono i tanti discorsi, i tuoi modi gentili. A lui basta il tuo sguardo. È proprio lo sguardo del volontario che gli rivela cosa egli ha nel profondo di sé. Senza mediazioni ulteriori, del tutto inefficaci a nascondere ance il minimo giudizio.

Sembra una meta quasi impossibile da raggiungere?

No. L’esperienza mi dice di no. Ci sono tanti volontari che operano con lo sguardo limpido, accompagnato sempre dal sorriso, affabili, accoglienti, ogni giorno, nelle nostre carceri accanto a tanti detenuti.

Un esempio per tutti, tratto dalla mia esperienza personale.

È la lettera che un detenuto del carcere di Bollate mi ha scritto dopo la morte di mia moglie, Enrica, volontaria in quest’istituto.

Gentile signor Guido,

questa mia lettera non potrà mai restituire ciò che la signora Enrica ha fatto per noi detenuti: vuole però provare a donare tutto l’affetto e la solidarietà che noi abbiamo la necessità di portare, sia a lei sia alla sua famiglia, in questo momento d’immensa sofferenza per tutti… per tutti quelli che hanno avuto la fortuna di conoscere sua moglie.

Una fortuna che ha reso le giornate di molti giornate migliori: bastava un sorriso, quel sorriso così dolce e spontaneo, a fare sbocciare tutt’intorno la luminosità del giorno… a farla rinascere in queste mura così grigie: nel buio di una vita lontana, che lei però sapeva “regalare di nuovo” a chiunque.

E “regalare” allo stesso modo con il quale ci sapeva parlare: con la sua innata e serena delicatezza, con l’attenzione all’altro solamente per il piacere dell’altro, dell’essere umano in quanto tale. Ed è proprio questo ciò che ora porteremo sempre con noi di Enrica, la più grande di tutte le sue ricchezze, quella pienezza che lei ha sempre voluto condividere con tutti, ciò che nessuna scuola vuole insegnare; ma che lei ha seminato indelebilmente in ogni sguardo per chi ha avuto il piacere di conoscerla: la vita nel senso più profondo e vero del suo termine, un amore incondizionato, totale, variopinto, e soprattutto privo di ogni pregiudizio.

Le siamo vicini con tanto affetto.

Vladimiro, per tutti i ragazzi di Bollate.

Dunque è possibile!

E non solo è possibile avere questo sguardo che ridona vita agli altri. Ma ciò avviene anche in senso inverso! Malata di tumore, tra una chemio e l’altra, quando le poche forze le tornavano, è andata in carcere, a trovare quei ragazzi, fino alla fine. E dal loro sguardo Enrica riceveva una forza incredibile. Sapevo quando entrava in carcere, non sapevo mai quando ne sarebbe uscita, sapevo solo che lei metteva in pratica la giustizia di chi si sente in ogni caso sempre più debitore che creditore, perché ha ricevuto più di quanto egli si possa aspettare.

E come Enrica, tante altre persone, mai giudicando qualcuno, portano ogni giorno la luce del loro sguardo nelle nostre prigioni a questa umanità che, sì, ha sbagliato, ma ora è soprattutto sofferente, e ha bisogno di una mano amica per vivere meglio e ricominciare. Così ciascuno di noi può personalmente contribuire a formare una società più giusta, e adoperarsi perché tutti ricevano il necessario per vivere secondo la propria dignità di uomini e perché la giustizia sia vivificata dall’amore.


Guido Chiaretti

Presidente Sesta Opera San Fedele

Associazione di Volontariato Carcerario - Onlus

Lo sguardo del volontario