Si tratta di una personale dal doppio allestimento, da visitare “in avanti o all’indietro”«Invecchiando mi è venuta voglia di raccontare»

Xerra: «Io, un artista tra storia e presente»

Torna ad esporre a Piacenza dopo 10 anni: da sabato al 12 novembre alla Galleria “Biffi Arte” in via Chiapponi.

 

In un testo rispolverato per i suoi 90 anni, Andrea Zanzotto dice: «Io credo che rimanga sempre aperta, per la poesia, una qualche strada nella direzione del vissuto: ma si tratta di una strada che riesce a forare il silenzio soltanto nella misura in cui si trasforma in ossessione».

Ora, vivere con un’ossessione sarà anche patologico, ma è appagante e, culturalmente, molto produttivo. Possiamo incollare la visione di Zanzotto alla figura dell’artista William Xerra, maestro dell’ossessione di un’arte che non può lasciare la storia, ma che anzi intreccia con essa un fitto, intimassimo dialogo sul proprio destino. Incerto.

A quassi dieci anni di distanza, Xerra espone a Piacenza, alla galleria Biffi Arte, in via Chiapponi, da sabato fino al 12 novembre. Il doppi di William Xerra è il titolo di una mostra personale dal doppio allestimento; doppio titolo e doppia lettura: da visitare in avanti o all’indietro. Uno sguardo alla storia e uno al presente. Di questo parliamo.

Accanto a opere degli ultimi anni, alcune recentissime, c’è un’estensione antologica che ha bisogno di qualche premessa. Perché Xerra ha sentito l’esigenza di ampliare la mostra al passato?

«La mia stria comincia a essere lunga e più le storie si allungano, più si complicano. Se voglio essere compreso devo dare una serie di ragioni al mio lavoro, rispondere alla domanda semplice e infinita: perché l’ho fatto? Ecco: volevo spiegare perché ho fatto alcune cose. Per questo motivo la parte antologica unisce opere di fotografia e documentazioni fotografiche che il tempo ha trasfigurato in opere – ma che funzionano in entrambi i sensi. Devo raccontare, ecco: può darsi che invecchiando venga voglia di raccontare…»

Senza mentire?

«Senza mentire. Forse…»

Sono in mostra le immagini delle sue performance principali: San Damiano nel ’73, Matera nel ’78, Pavia nel ’76, Milano Poesia alla fine degli anni Ottanta… Immagini gli scavi: penso a un’archeologia dell’arte contemporanea, visto che oggi il tempo va in fretta.

«Le immagini della storia di ciascun individuo sono la storia di tutti, si sa. In più, in un artista c’è la sensazione che ogni suo gesto sia teatro, sia letteratura. Allora bisogna evitare che l’arte diventi una questione di addetti ai lavori: quanti artisti lavorano solo per i critici, i collezionisti, per altri artisti? Vale a dire che lavorano per il sistema “chiuso” dell’arte e non per il mondo. Invece l’arte è una pratica sociale dentro la rappresentazione del mondo: l’arte è responsabilità. Il gesto di un artista avrà sempre una conseguenza dentro la società, perché ci sarà sempre qualcuno che un giorno guarderà le sue fotografie, la prova dei fatti e dei misfatti».

Molti anni fa, accettando di aiutarmi a presentare nella nostra città un maestro contemporaneo, lei mi disse: “ti aiuto volentieri perché ho fatto questi tentativi prima di te, ma so che sono inutili: questa città si apre e si chiude continuamente e non va mai avanti”. Pensa che sia ancora così?

«Penso di sì. Rispetto al mio passato sono molti i giovani che si muovono, che hanno occhi aperti sul mondo. La città stessa si è scossa un po’ di vecchio dalle ossa e sembra “moderna”, a tratti persino europea; ci sentiamo seducenti e tranquilli, ma sul piano della cultura artistica (ma direi della cultura in quanto crescita consapevole) siamo ancora solo sagome dallo spessore di pochi centimetri. E come le sagome, mentiamo sulla nostra consistenza. Siamo apparenze».

Sagome come gli ominidi del ‘67/’68, proiezioni di un dominio senza redenzione.

«Erano opere che, su una scena d’ordine astratto, sintetizzavano il concetto di alienazione che si trovava allora al centro dell’attenzione… Per me coincisero anche con l’abbandono della pittura e delle mitologie che avevano contribuito alla mia formazione: eravamo figli di una grande tradizione che ci seguiva ancora con figure ormai auliche come Morandi. Per passare dalla parte di Fontana e di Burri, iniziatori di una nuova tradizione, dovevamo far salare il tappo di quel passato polveroso».

E chi sono gli alienati di oggi, secondo lei?

«Chi si priva di una funzione critica o pensa di svolgerla rinunciandovi del tutto. Le opere nate sotto il segno di “io mento” vengono anche dal linguaggio dei luoghi comun fondati, trasmessi, accettati sai più: veleni dell’anima».

Non teme che il passato soverchi il presente – a fronte di un presente miserevole?

«Il passato ha sempre un peso specifico maggiore, si sa, perché i ricordi ci muovono al sentimento più del presente. Ma un’opera d’arte che si rispetti è una sintesi del tempo andato e di quello che viene, perché abita un progetto. In realtà, un artista crede ancora nella possibilità di cambiare il mondo, cosicché non esiste una vera opera d’arte che non sia intimamente rivoluzionaria – anche se di questi tempi ci si vergogna a dirlo».

Le opere recenti sono il nucleo della mostra, con alcuni esemplari degli anni ’90 fino ad oggi.

«Gli anni ’90 sono stati i più difficili per la mia generazione. Se pure eravamo riusciti a reagire all’effimero degli anni ’80, che dopotutto stimolò qualche reazione intelligente, negli anni ’90 ci siamo trovati improvvisamente bloccati da una specie di macinatura del tempo senza gerarchie di senso. Maestri improvvisati – così come improvvisati furono certi politici e amministratori – hanno trasformato i vizi in virtù, il diniego in cultura. Tutto è precipitato verso il basso e il basso è diventato la forma del presente, ma attenzione: tutto è accaduto in fretta e con efficienza industriale! La grande operazione politica del nostro tempo è far credere che l’arte sia equiparabile a una vacanza esotica low cost o sia una mostra di Van Gogh. Poi sono in mostra le opere degli ani Duemila, tra cui la serie io mento, e quelle più recenti, di ieri, che forse avvieranno un nuovo ciclo che intitolerò dialogo assente. Ho sempre lavorato per cicli, inizi e termini, processi, serie. L’arte non è un effetto, credo, ma una causa. Con gli effetti si fanno cose divertenti e si stupiscono gli osservatori, ma si impoverisce la ragion dell’arte e la sua corporalità. L’arte è fatta di corpi prima che di menti».

Nel contesto della sua opera il libro ricopre un ruolo centrale.

«Sì, dal libro d’artista al catalogo. Dopotutto, durante gli anni ’60 sono finito nei labirinti della poesia visiva inseguendo il miraggio della scrittura da guardare, provare, saggiare come un biscotto. E anche quando ne sono uscito la voglia del libro è rimasta. È un desiderio d’amore che non si appaga mai. Anche in questa mostra ci sono libri, libri esposti e libri a supporto. Due cataloghi, la personal e l’antologica, e il libro della collezione di Pietro Casella».

«Dipingere?», «Fotografare?», sono i titoli delle due sezioni della mostra. Perché i titoli hanno il punto interrogativo?

«Il punto interrogativo è un dubbio che mi viene e insieme una possibilità. Sta a dire: la strada è dipingere? Oppure: fotografare? Indica una strada che rimane aperta. Pone la questione della scelta che non è mai, non può mai essere ultima. Il punto interrogativo è una doppia, tripla possibilità. Io ho dipinto, fotografato, montato, assemblato, recitato, filmato, ballato, cantato sopra ogni cosa. E ogni azione compiuta ha conservato il suo punto interrogativo. Non si può eliminare il punto interrogativo».

 

Intervista a William Xerra di Eugenio Gazzola.

Libertà 13 ottobre 2011.