Allievo di Restany, fondatore del manifesto “Io Mento”, con la sua esposizione apre l’evento

Xerra: «Nell’incompiuto, l’universo»

L’amore dell’artista per il frammento ne “Il segno dell’imperfezione”

Non si può che rimanere affascinati dall’incontro con William Xerra. Il suo esordio risale agli anni Sessanta, con una serie di opere legate alle poetiche del segno e della materia, proprie dell’informale d’oltralpe. Dopo una breve infatuazione pop, l’approdo alla poesia visiva, l’avvicinamento alla poetica del “Vive”, e i cicli Via Crucis e Orme, in cui compare per la prima volta il logo “Mento”, che caratterizza le opere degli ultimi anni e diventa il perno di un importante manifesto letto da parte di Pierre Restany.

Incontriamo Xerra nel suo castello di Ziano piacentino, all’ombra del campanile e del borgo, luogo magico, che odora di storia, dove si concentrano in ogni angolo quadri e sculture, appunti di una vita artistica intensissima che si esplica nella dimora stessa, ricca di scorci inaspettati: un antico forno a legna, un nido di rondine conservato sul trave di legno, una piccola terrazza e infine l’atelier. Caldo, solare, vissuto intensamente e stracolmo di tele e di volumi, carico di tutte le aspettative, un libro appena aperto e a lungo pregustato. Come la sua casa domina il panorama della cittadina fortificata, ma con discrezione, così Xerra non siede sugli allori con piglio di snobistica ritrosia, ma svela la sua arte, a poco a poco con sincero piacere. Delizia. Da assaporare al Parmapoesiafestival da domani, quando alle 17:30 aprirà “Il segno dell’imperfezione”.

La sua mostra inaugura gli appunti di arte visuale della seconda edizione del Parmapoesia. Quale significato attribuisce al titolo “Il segno dell’Imperfezione”?

«Amo il frammento, amo il non finito michelangiolesco, amo l’incompiutezza, nella logica di un sistema che vuole tutto ordinato, compiuto e catalogato. Credo che sia estremamente interessante entrare in una chiesetta e osservare i frammenti superstiti di un antico affresco, Vorrei che la platea potesse vedere, ad un tratto, la bellezza che sta nell’attesa, immaginando anche quello che si potrebbe fare in futuro».

Aby Warburg sosteneva che il buon Dio fosse nascosto nei dettagli, si identifica con questa affermazione?

«Sì, ogni piccolo frammento cui ci approdiamo è un universo e quell’universo che conosciamo potrebbe essere parte di mille galassie. Bisogna dunque considerare il frammento come uno dei fuochi del mondo, che diventano specchi in cui noi ci guardiamo e confessiamo.»

A Parma è stato invitato ad esporre nell’aula sconsacrata di San Ludovico: che significato associa a questo contesto?

«L’opera è comunque sacra in quanto segno dell’uomo. Ciò che segniamo diventa sacro per il presente, per il trascorso e per il futuro. Lo spazio della chiesa diventa importante perché ha avuto momenti significativi. Molti spazi cedono perché non hanno avuto significato neanche inizialmente. Il senso del luogo pervade la chiesetta.»

Ci racconta la sua opera One Way?

«Un grande tappeto fatto delle prime pagine di giornali italiani e stranieri raccolti dopo le stragi dell’11 settembre. Accade che campeggino titoli cubitali sulla guerra e sul retro immagini pubblicitarie da cui spiccano palloncini colorati. È il gioco della vita. Nel centro porgo un crocifisso ligneo capovolto che si riflette nello specchio su cui è appoggiato. È il pastore che assieme a noi pecore guarda il fondo, l’infinito, qualcosa che non ha espresso.»

Esiste un rapporto tra quest’opera e le lapidi degli anni Settanta in cui aveva sostituito un piccolo specchio al ritratto del defunto?

«Come nelle lapidi, così nel crocifisso c’è l’invito a specchiarsi attraverso un passaggio obbligato. Si potrebbe legare anche alla serie di “Io mento” in cui ritorna la confessione, il guardarsi in faccia, nel profondo.»

Sarà proiettato anche il video Io mento in cui Restany legge l’omonimo manifesto firmato da entrambi?

«“Io mento” testimonia il fatto che non credo più negli “ismi”, tuttavia non sono ancora in grado di intuire il futuro dell’arte. Ho scritto il manifesto subito apprezzato da Restany che si è offerto di leggerlo».

Quale è stato il suo rapporto con Restany?

È entrato per caso, ad una delle mie prime mostre alla Galleria Diagramma Di Luciano Inga Pin e ci siamo conosciuti, poi mi ha invitato ad esporre a Seul in occasione delle Olimpiadi. Ero accanto a Burri… Ha dormito più volte a casa mia, così come Mimmo Rotella, eravamo amici ma non mi ha mai suggerito niente, Scriveva di getto frasi di straordinaria bellezza. Lo definirei “gigantesco” per il fatto che era in grado di partecipare con grande cognizione di causa a tutti gli specifici.»

Quali altre opere ha scelto di portare a Parma?

Ci saranno anche scritte al neon cancellate, un tavolino coperta da una Deposizione su cui si riversa una colata di sangue, illuminata da quattro lampade… e la classica valigetta.»

È l’opera che le è più cara?

«Sì e no. È piuttosto il mio marchio di fabbrica. Faceva parte di una performance. Entra in scena una donna nuda con una valigia. La apre e, dopo aver frugato a lungo, estrae un abitino nero che si prova vezzosamente sul petto. Indossato il vestito si trucca quindi richiude, compiaciuta, la valigia e si accinge ad andarsene. All’ultimo gira la valigia su cui campeggia la scritta “Io mento”.

Un aforisma…

«La verità è sempre dietro il quadro (Corrado Costa)».


Chiara Serri