Malinconia della pittura (ellera, errarfe, strale) e tela immortale (in diagonale)
Nel 1980 Xerra rifiuta l’interinale e ritorna alla pittura dal vero, il piacere del gesto, della materialità e cromia dei valori pittorici non significa, tuttavia ricuperare la rappresentazione. Le opere numerose, benché poco note, segnano un momento di “evasione”, il piacere di sperimentare nuovi spessori della materia, stesure del colore, gesti di una immediatezza del dipingere, anche en plein air che è, anzitutto, rifiuto del concettuale. Questa fase, che dura un anno e mezzo, ed è sintetizzata in Malinconia del 1983, è, invero, un altro aspetto del Vive, che riabilita, in questo caso, la materia pittorica, il gesto, che fin dagli anni Sessanta sigla un aspetto del lavoro di Xerra, l’altro, quello del rigoroso impianto della composizione è, soltanto per il momento, messo tra parentesi. Non va dimenticato quanto anche in questi lavori affiori il lavoro della memoria, memoria dei colori, dei verdi intensi dei paesaggi, dei riflessi delle acque, della luminosità dei luoghi, luoghi “domestici” di cui il tratto rapido, il disegno quasi abbozzato colgono aspetti contingenti, con pennellate, sfumature e pigmenti che ricordano le vibrazioni di Monet, la tensione del colore di Derain, ma riletti attraverso una spaziatura e una semplificazione del segno e del colore che tiene conto degli acquarelli astratti di Kandinskij, della dislocazione del segno nella superficie di De Kooning e delle sgocciolature di Rauschenberg.
Ma sempre nei primi anni Ottanta incisioni, serigrafie, acqueforti e disegni fanno emergere un altro versante del lavoro sulla memoria, una indagine sul segno, che bene si comprenda guardando alle opere della metà degli anni Ottanta, caratterizzate dal colloquio tra il frammento e il disegno. Quando, dopo Malinconia, Xerra torna infatti ai dipinti su telaio interinale, il rapporto tra la superficie pittorica e il frammento è diversamente risolto, quest’ultimo non è più collocato a margine di una stesura monocroma ma costituisce il fulcro di una complessa composizione. La “scrittura” è stratificata e trasparente e sullo strato cromatico un tratto lieve, quasi inciso, che sembra alludere a uno spolvero o al candore della sinopia, disegna antiche memorie. Xerra è affascinato da quel primo segno sottile tracciato senza il peso della materia pittorica, che compare nei dipinti del 1984, lavora con gesso di Bologna, miele, giallo di Napoli e colla di pesce, generalmente biacche candide sporcate d’ocra o di bruno-rosa, variegate in grigio azzurro, e la tela così preparata pare un arriccio corrusco emerso dopo lo stacco di un affresco, è una superficie quasi increspata dal colore sulla quale affiora il disegno di un incontro di mani, particolari di una storia tracciata nelle posture e atteggiamenti dei corpi. Ma quel segno sottile ha un riferimento più prossimo, Xerra lo ritrova nel disegno di Picasso, neo graffiti con lumeggiature di biacca degli anni venti (pensiamo al L'idillio del 1923) nei disegni lineari del contorno, memoria delle decorazioni, dei monocromi su marmo, degli affreschi ammirati al Museo Nazionale di Napoli da Picasso nel suo viaggio in Italia. È questa trascrizione di motivi iconografici, sono i profili quasi incisi sui fogli del Carnet di Cap d’Antibes del 1923 ad affascinare Xerra41, ma la sua considerazione va altresì al segno di Fontana che incide il cemento facendo emergere il fondo nelle Tavolette graffite degli anni Trenta, o delle linee scarne di tipo grafico dei suoi disegni. Ecco a cosa guarda l’essenzialità del segno di quelle figure quasi incise che appaiono in Susanna e i vecchioni (1986) o Per farvi ritorno (1987). Su quali stratificate memorie lavori Xerra, e come attui la trascrizione dei motivi iconografici che affiora dappoi anche sull’interinale, si evince guardando alle serigrafie realizzate nel primo lustro degli anni Ottanta. Memoria dei maestri amati nella prima giovinezza, come nel passaggio sironiano di Centimetri diciassette del 1985, il riaffiorare dell’interesse per la ricostruzione futurista dell’universo, nel disegno del vestito antineutrale di Balla in Uomo del 1985, la lunga familiarità con gli affreschi del Pordenone in Santa Maria di Campagna, come in Una montagna sull’altra del 1986, dove compare il disegno lineare a contorno di un particolare della Natività della Vergine. Se l’idea di rivelazione è uno dei concetti più cari al fare di Xerra, dobbiamo intendere in quale guisa la composizione riveli e come mai del frammento importi lo spazio di interpretazione ed elaborazione delle fonti iconografiche. Il frammento è uno stimolo per immaginare il disegno primario, “io uso nelle mie tele il frammento – afferma Xerra – come suggerimento per lo spettatore”42 e anche il segno inciso della sinopia è un frammento. In un caso preciso, Xerra suggerisce allo spettatore di considerare il linguaggio fondato sul corpo, sugli atteggiamenti, in particolare sulla posizione delle mani, che apre spazi all’interpretazione e rivela quanto la parola, di contro, sia inadeguata. Ed ecco che l’apparire dell’intreccio delle mani, mediato dalla Primavera di Botticelli, o le mani in atto di sorreggere e mostrare43, trascrizione di un particolare della Pala di San Barnaba, assumono grande rilievo nella sintassi compositiva. Benché estrapolato dalle “istorie”, e inciso sulla materia pittorica dell’interinale, il disegno del gesto è una componente non incongrua bensì saliente della narrazione che governa l’opera di Xerra. Dorfles mette in risalto il contrasto tra l’asimmetria della composizione, l’equilibrio non statico, e l’impianto delle tele antiche di cui il lacerto è il frammento, che “conferisce una ulteriore nota di spaesamento”44, e segnala nella pittura di Xerra la prevalenza del tono sul timbro. Come articola il pittore piacentino la necessità di accostarsi alla storia dell’immaginario visivo, e in che relazione sta il frammento, come recupero di un “intervallo perduto” della storia, con la disritmia della composizione e l’eteroglossia delle scritture45? Se il frammento, sia quello disegnato, sia il lacerto di tela antica, costituisce l’embrione iconico della composizione è la costruzione dello spazio, come afferma lo stesso Xerra46, il costituente fondamentale per la ricerca di nuovi fuochi e di nuove situazioni di racconto. Uno spazio costruito con attenzione a tradizioni diverse: in Musica militare, volto di donna, sete eccitata del 1984 l’accennata bifora che la pausa delle dense pennellate stese a tratti rende spazio illusivo rimanda al procedimento di revisione onirica di Jim Dine, ma il tema della soglia non è nuovo a Xerra tanto che lo troviamo in due disegni, uno del 1976 e l’altro del 1979; nel primo compare il disegno di una bifora, nel secondo una porta o armadio chiuso, trascrizioni di Etant donné e della Porta: 11 di rue Larrey di Duchamp, spazi ermetici, intervalli perduti. Ma è con le opere della metà degli anni Ottanta che l’eteroglossia delle scritture si inserisce pienamente nella nuova situazione del racconto, che non principia dal frammento poetico, da Pound a Sofocle ma che include nella costruzione dello spazio anche la parola scritta, ovvero i frammenti del Dizionario dei Paragoni in aiuto dei predicatori e dei catechisti del 1889, che Xerra aveva acquistato all’inizio del decennio, che istituisce un ulteriore procedimento di revisione onirica. l’altro del 1979
Che la conformazione dello spazio sia la componente essenziale per determinare nuovi fuochi della narrazione è ben evidente in (P.R.G.) Per gentile intercessione della M.d.R. del 1986. Lo schema richiama, benché semplificato, il palcoscenico, il frons scenae di una particolare idea di teatro, quello del teatro della memoria di Robert Fludd. Se la composizione riprende questa iconografia, è al Teatro della memoria di Giulio Camillo che dobbiamo pensare per la costruzione del racconto47. Il Teatro della memoria è un sistema di immagini collegate all’idea di un universo ordinato e retto dalle corrispondenze; una visione del mondo e della natura delle cose al quale si connette un sistema di luoghi della memoria dove alle immagini corrispondono discorsi che si riferiscono ai soggetti richiamati dalle figure. Il teatro si presenta, dunque alla nostra mente come un grande schedario e se un vento improvviso scompigliasse le carte contenute nei cassetti e si perdesse l’ordine precedente, immagini e discorsi, parole e cose si troverebbero gli uni accanto agli altri come gli oggetti, i dipinti, i manoscritti nelle soffitte o nei mercati antiquari, di cui è andato perduto il senso originario. Xerra reintegra nella stanza della memoria tutti i possibili significati intrinseci o contenuti dell’immaginazione, come direbbe Panofsky48: i frammenti, dislocati nelle pareti laterali del palcoscenico, emergono in una stesura pittorica che è, come già nelle opere precedenti, componente dello spazio elaborato per la ricerca di nuove situazioni di racconto. La materia pittorica con addensamenti e rarefazioni è cielo corrusco squarciato da nubi, come quello in cui al San Vincenzo martire in adorazione di Ludovico Carracci appare la Vergine col bambino49. Ma Xerra non fa distinzioni tra lingua alta e vulgata e riabilita anche l’iconografia religiosa popolare degli ex-voto, introduce inoltre materiali poveri, come le carte per agrumi, dacché nella sua stanza della memoria è già entrato il vento degli accostamenti spiazzati che ha condotto lì gli elementi incongrui provenienti dai collage di Ernst. Xerra è un bricoleur, per dirla con Lévi Strauss, colto e raffinato, e anche la parola dipinta è un’immagine alla quale corrisponde un discorso: alcune lettere disegnate, come la scritta “Stet” in un quadro del 1987, rimandano ai partili inseriti nella pittura, ai rotulus, al biblio volumen srotolato o aperto, e pensiamo, per fare solo alcuni esempi, alla Visione di San Bernardo di Filippino Lippi, al cartellino del Salvator Mundi di Antonello da Messina.
Nel 1987 Xerra dipinge la copia del Cristo morto del Mantegna, a olio magro su tela. È un momento importante, determinante per le opere a venire, non è l’esercizio di un copista, è un’esperienza concettuale che lo impegna per sei lunghi mesi di lavoro. Dal 1987 e nel 1988, infatti, emerge il ricordo delle trasparenze del Mantegna, la stesura per velature nei quadri azzurri realizzati col blu oltremare, blu di Cobalto e bianco dimostra una precisa tensione verso una pittura non metrica, come nella casa ideale che Xerra immagina costruita sopra le nuvole per vedere il mondo attraverso frammenti, che affiora, ad esempio, in Angeli arcangeli (1988). Uno spazio costruito obliquamente in squarci di cielo, un azzurro denso di velature come il cielo della Camera degli sposi del Mantegna, che lascia trapelare tracce del mondo delle immagini, frammenti sempre più sottili, dislocati nella superficie delle tela, tra affioramenti di segni, diagrammi di un alfabeto simbolico e immaginario. Un cielo, dunque percorso da scritture indecifrabili e dislocate, che richiama alla mente la geometria simbolica di Licini50 incentrata sulla figura del chiasmo e della alternanza ritmica, in specie nei quadri della prima metà degli anni trenta, con traccianti ritmici, suddivisione in settori, rammentiamo Composizione (Studio per Castello in aria) (1932) e Notturno (1931-32). Xerra elimina il piacere della pittura addensata e vibrata in fitte pennellate, accenna le prospettive e trova in Licini l’equilibrio di uno spazio asimmetrico, il ritmo e la spazialità geometrica che diventa luogo dello stupore, È un ulteriore momento di riflessione sull’idea dello spazio come luogo del racconto. Condivide l’entusiasmo di Licini per Paolo Uccello e soprattutto per Piero della Francesca, ché, nello spazio costruito da Piero, Xerra ritrova l’invisibile pittura che in questi anni sta perseguendo, e rivà col ricordo alle lezioni di Guido Ballo, quando giovane studente a Brera scopriva la limpida abilità prospettica del Maestro di Borgo San Sepolcro che sembrava non aver dipinto, tanto era rarefatta la sua pittura. Questo è l’insegnamento di Ballo, che rimane scolpito nella mente di Xerra, e poco importa se dopo i restauri emerge che la Madonna e santi con Federico di Montefeltro è un’opera rimasta incompiuta.