Negli anni Settanta ha saccheggiato i rigattieri di Milano e Parigi e i negozietti di Brera a caccia di piccoli dipinti malconci del Sei e del Settecento. Tele di poco valore che William Xerra (non senza un po’ di timore reverenziale) divideva in frammenti: una testa d’angelo, due mani giunte, un volto della Madonna, brandelli di immagini sdrucite e rimontate in nuove composizioni, fra forme astratte, colori shocking e, qualche volta, scritte luminose appese alla cornice.
Ma sopra a tutto questo cocktail d’ingredienti dominava sempre la grande parola «VIVE», tracciata in bella calligrafia. Una parola che nel lessico editoriale si usa apporre sulle bozze quando un elemento già depennato viene riabilitato. E che, per Xerra, è diventato una specie di marchio di fabbrica; lo slogan di un ciclo di lavori importanti, maturati all’interno della sua poetica concettuale e legati alla volontà di ricuperare pezzi di una memoria passata per proiettarli nel futuro, salvando dall’oblio dettagli, ritenuti insignificanti, ma rinati a nuova vita. Dipinti antichi, dunque, ma anche foto d’epoca o vecchi oggetti quotidiani, come una valigia, una porta rotta, e persino corredi liturgici, un po’ consunti, che oggi messi in cornice accanto a un cartiglio elegante con la parolina magica VIVE, rivelano addirittura una valenza estetica (che gli è valsa un incarico per la cattedra di arte sacra e Brera), oltre al fascino di un reperto d’altri tempi… di un’apparizione. Cosa che piacque molto a Federico Zeri, affascinato dal suo modo, cerebrale e sensuale insieme, di mixare l’arte concettuale con la tradizione. E, soprattutto, a Pierre Restany, il critico francese del nouveau réalisme, che affiancò Xerra fin dagli esordi, partecipando alle sue performance e che, alla fine degli anni Novanta, lesse alla Fondazione Mudima il manifesto «IO MENTO», vergato in occasione di un altro ciclo di lavori sul tema della bugie e della verità.
Fiorentino di nascita, classe 1937, e piacentino d’adozione, Xerra ha insomma basato quarant’anni di ricerche sul dialogo fra immagine e parola, legandosi agli esponenti della poesia visiva, lavorando con gli intellettuali del Gruppo ’63, protagonista di Milanopoesia, e aggiudicandosi più volte con i suoi «dipinti scritti» le copertine di Abitare e di Domus. Tracce di una storia ricostruita oggi in una mostra a cura di Roberto Borghi da Artepensiero, con una bella sezione sulle carte allestita nel ristorante dello spazio Revel-Scalo all’isola.
Chiara Gatti
La Repubblica 23 gennaio 2008