SIEGFRIED, alla Scala
Per prima cosa dirò subito che lo spettacolo è stato entusiasmante. Ho avuto la netta sensazione di avere assistito ad una rappresentazione del Sigfrido veramente di altissimo livello. Sono stato incollato alla musica e alla scena per le canoniche quattro ore senza mai avere avuto per un momento sensazione di noia o di stanchezza. Assieme a me, dato l’entusiasmo degli applausi alla fine degli atti, e soprattutto alla fine dello spettacolo, devo ritenere che molti altri abbiano avuto simile sensazione.
Il cast era sostanzialmente diverso da quello della prima, che pure ho sentito nella diretta radiofonica. Mancavano infatti Wolfgang Schmidt, che è stato sostituito da Siegfried Jerusalem nel ruolo di Siegfried, e Falk Struckmann, che è stato sostituito da Monte Pederson nel ruolo del Viandante. Confermati gli altri: Zednik come Mime e soprattutto la Jane Eaglen come Brunnhilde.
Anzitutto la tanto discussa regia di Engel e Rieti. Occorre dire che ho trovato
una fusione perfetta fra azione scenica e musica. Sia il muoversi dei
personaggi sulla scena, che il loro canto, avevano una forte valenza
di recitazione teatrale vera e propria, che la musica orchestrale
sottolineava efficacemente. Per intenderci: i cantanti sulla scena
erano veri e propria attori, che esprimevano il loro ruolo attraverso
un canto altamente espressivo, mentre l’orchestra era eloquente
commento all’azione scenica. Raramente ho osservato una fusione così
intima fra musica e teatro. Questo è un segno inequivocabile che
regista e direttore hanno lavorato su un unico progetto: entrambi
partecipi alla progettazione e all’esecuzione.
Qual’è questa progetto? Anzitutto ho osservato una sana ripulitura di
tutta la retorica che solitamente accompagna la descrizione
dell’antico mito germanico. Sigfrido non è il fulgido eroe, che per
disegno divino sconfiggerà il male, né è l’antesignano del superuomo.
Quella di Sigfrido è una favola. Ci sono tutti gli ingredienti: c’è la
spada magica, c’è l’uccisione del drago, c’è la comprensione del
linguaggio della natura, c’è la bella addormentata da svegliare con un
bacio.
La favola comincia facendoci vedere Sigfrido adolescente che vive col
padre. Come tutti gli adolescenti è strafottente la sua parte. Ama il
padre, ma spesso non lo sopporta, soprattutto quando delude le sue
aspettative, o quando si fa troppo petulante, o il suo affetto diventa
appiccicoso. Scene di affetto si alternano a scene di insofferenza: la spada di cui il giovane sente il bisogno ma non riesce ad avere, il
cibo che vorrebbe più saporito, etc. Anche quando, nel drammatico
confronto Sigfrido viene a sapere dei suoi genitori, questo non
scatena l’odio verso Mime. Anzi. La scena in cui Mime confessa che la
madre è morta, alle parole “Sie starb” la musica ci fa entrare in un
mondo di commozione che coinvolge sia Sigfrido che Mime. La scoperta è
un trauma per Sigfrido, ma Mime resta sempre l’uomo col quale ha
trascorso infanzia e fanciullezza. E quando il nano gli mostra i frammenti della spada, Sigfrido, con la strafottenza tipica degli
adolescenti, gli impone di rimetterli insieme. Poi, felice per la nuova
scoperta, accompagnato dalla vivace e allegra musica del desiderio di
viaggiare, esce dopo aver dato un bel bacio sulla fronte al nano dal quale si aspetta il recupero della spada.
Zednik e Jerusalem sono formidabili. Cantano e si muovono con estrema naturalezza, dando alla loro recitazione
(sottolineo recitazione, perché questo è il loro canto) un tono di grande spontaneità, senza forzature e senza gli atteggiamenti farseschi tradizionali in Mime, ma molto espressiva. L’ambiente in cui recitano è fatto da due dimensioni: una esteriore,
la scena, il palcoscenico, l’altra interiore, la musica.
Mi sono un attimo dilungato su questa scena per cercare di far capire
l’atmosfera di questo Sigfrido di Engel-Muti. I protagonisti sono
uomini, lontano le mille miglia dalla trucibalda atmosfera degli
oscuri miti della notte dei tempi. Vestono normalissimi vestiti che
possono indossare due persone che vivono in un ambiente situato in
mezzo alla foresta, lontano dalla “vita civile”: un paio di calzoni e
camicia Sigfrido, una specie di camice o vestaglia, Mime. L’ambiente
ha l’aspetto di una mansarda con il tetto un po’ sfondato, dal quale
entrano raggi di sole, e attraverso il quale si vede il verde degli
alberi del bosco. Dentro, i soliti arnesi: l’incudine, la fucina, il
tavolo. Nulla di terrificante, tutto in un’atmosfera da vita di tutti i giorni. Ma bello a vedersi.
Certo, il Sigfrido fa parte della Tetralogia e quindi dietro il nostro
adolescente, pieno di energia vitale, desideroso di apprendere, sensibile e strafottente come tutti i suoi coetanei, ma ancora
ignorante e ingenuo, si muove un mondo torbido, di cui anche Mime fa
parte.
E’ il mondo parallelo alla fiaba di Sigfrido. Nell’opera si svolge
attraverso alcuni dialoghi, dai quali Sigfrido è rigorosamente escluso:
Wotan-Mime, Wotan-Alberico, Mime-Alberico, Wotan-Erda.
Ma anche i personaggi che popolano questo mondo sono personaggi che stanno fra il fiabesco e l’umano. Non c’è retorica nei dialoghi, ma
solo sentimenti dominanti: lo scontro fra chi sa e gioca in sicurezza e chi ignora, dominato dall’insicurezza, ma che tuttavia non si sottrae ai doveri di una ospitalità, sia pure non gradita, offrendo il rituale bicchiere di vino; lo scontro fra due forti personalità in competizione; lo scontro litigioso fra due fratelli; la disperazione
di Wotan che invoca Erda solo per apprendere che ormai tutto è finito. La musica esprime magnificamente questi stati d’animo, così come sulla scena canto e gestualità li rendono espliciti. Wotan indossa il
rituale soprabitone con l’altrettanto rituale cappellaccio; Alberico
si presenta con le stampelle: la disfatta subita nell’Oro del Reno ha
lasciato in lui evidenti tracce, che mi è sembrato intelligente manifestare anche fisicamente. Erda non sale dalla terra, ma si
presenta in un modo nuovo e interessante. In una scena-quadro
incorniciata con un passe-partout nero, e contenente solo un fondo
grigio – nel quale un Wotan disperato nei gesti, nel canto e anche nel
vestito (calzoni e canottiera) invoca la dea – essa penetra lentamente
da un lato, vestita di una tunica grigia che si confonde perfettamente
con lo sfondo. L’effetto è quasi quello di una sua lenta
materializzazione. Anche qui la musica è di una straordinaria
eloquenza, così come lo è il canto e la gestualità.
Il mormorio della foresta. La scena è un intrico di enormi radici che
occupano la parte centrale del palcoscenico. Lo sfondo è totalmente
nero. La scena è cupa, minacciosa. In essa si svolge lo scontro fra
Wotan e Alberico, e il litigio fra i due fratelli Nibelunghi, oltre che la lotta di Sigfrido col drago (questo, forse, il punto più debole
dell’allestimento). Ma quando comincia il mormorio, una luce chiara
investe il corpo di Sigfrido. Certo la scena non cambia. Ma la sua
cupezza si attenua, e la musica, la luce ci fanno dimenticare per un
attimo che siamo in presenza del drago, e avvertiamo l’incanto di Sigfrido, la sua comprensione della natura, il “ricordo” fantastico
della madre. La scena, teatro di intrighi, di minacce, di uccisioni, per un attimo si trasfigura aiutata dalla luce e dalla musica. Anche qui nessuna retorica, ma atmosfera da fiaba, nella quale i sentimenti
hanno la meglio sui simboli.
Il risveglio di Brunilde. Della scena di passaggio ho già detto
parlando di Erda. Brunilde giace addormentata nel famoso e discusso campo di papaveri. Non solo non vedo nulla di strano, ma a me pare bella e poetica questa scena, ricca di colore, in un cielo terso, nella quale Brunilde si sveglia e intona il duetto d’amore con
Sigfrido. Qui gestualità e canto sono canonici. L’iniziale paura di
Sigfrido, l’iniziale felicità di Brunilde, poi l’ansia di Brunilde che
vede svanire le sue prerogative divine (“Ewig war ich, ewig bin ich”
Eterna fui, eterna sono) e il nascere dell’ardente desiderio di
Sigfrido, fino al bellissimo duetto finale dell’incontro amoroso.
Da notare che la musica del terzo atto adotta un linguaggio ben
diverso da quella dei primi due. In questi i leitmotiv hanno una
carattere prevalentemente descrittivo, di personaggi, di situazioni,
di sentimenti. Nel terzo atto (scritto, è bene ricordarlo, dopo
l’esperienza del Tristano), se lo stile concorda bene con quello dei
primi due, il linguaggio se ne discosta notevolmente. I leitmotiv non
hanno più un carattere solo descrittivo, ma soprattutto espressivo dei
sentimenti. L’armonia si sovrappone alla melodia, il flusso musicale
si fa ininterrotto. Si pensi solo ai preludi. Quelli dei primi due
atti descrivono l’ambiente e i personaggi che vi agiscono: nel primo il tema della meditazione, il tema della servitù, del tesoro,
dell’anello, etc.; nel secondo il tema del drago, della maledizione,
etc. Nel terzo la concitazione della musica nel far riecheggiare temi
come quello del crepuscolo o quello del patto, esprime
meravigliosamente il senso di disperazione di Wotan che sta per
incontrare Erda. E così, nell’incontro fra Sigfrido e Brunilde, i temi
larghi, distesi, avvolgenti come quello dell’eredità del mondo, del
desiderio d’amore, della pace (sul quale Brunilde canta l’aria forse
più bella del Sigfrido “Ewig war ich“) hanno una componente armonica
ricchissima e sono temi prevalentemente espressivi, più che
descrittivi.
Tutto questo da Muti, dall’orchestra viene espresso in modo
meraviglioso, senza traccia di retorica, ma coinvolgente, tale da
catturare sensi ed emozione. I cantanti non sono da meno. Sono tutti
da citare per la bravura e l’impegno, sia nel canto che nella
recitazione. Lo stesso Jerusalem, che in altre occasioni non mi era
piaciuto, qui è stato fantastico: un Sigfrido naturale. Ma forse la
sorpresa più bella è stata quella della Eaglen. Che voce! Che canto
espressivo! Che purezza di accenti! Credo che la possiamo mettere,
senza paura di sbagliare, fra le più grandi Brunilde della storia
della Tetralogia.
E ora qualche polemica non guasta.
Come ormai è tradizione e costume, alle prime della Scala, dobbiamo
sorbirci i buuuh. Ma come abbiano fatto a buuhare uno spettacolo come questo, francamente non riesco a capirlo. Mi basta tuttavia
constatarlo e prendere atto del fatto che esistono anche persone capaci di
buuhare autentici capolavori (e che, ovviamente, si autodefiniscono
”intenditori”). Questo fenomeno è tuttavia limitato alle “prime”. Alla
rappresentazione cui ho assistito, solo applausi, entusiastici
applausi.
Ciò tuttavia che mi sgomenta di più sono i giudizi dei critici dei
quotidiani.
Farò alcune citazioni:
Arruga sul Giorno mi sembra che abbia ben capito il senso della regia:
Dice “L’allestimento tende a spogliare Wagner da tutto quanto può far
passare le sue opere come gigantesche… e lo riduce al rapporto
essenziale fra personaggi e natura” Poi “Tutti recitano coerentemente
con grande attenzione alla parola” “…Riccardo Muti… ha una visione
chiara dell’interpretazione drammaturgica di quest’opera… Per ora
l’indizio maggiore è proprio il rapporto fra voci e orchestra…” Però
poi incomprensibilmente dice anche che la regia “è una strada un po’
povera”. Che cosa significa? Povertà è la mancanza di retorica? A me
questo aggettivo sembra fuori posto.
Rubens Tedeschi, sull’Unità: “…desolante qualità dello spettacolo
visivo…. soltanto l’ostinazione (sic) di Muti ha imposto la continuazione del ciclo con la regia di Andrè Engel… Assieme al
campo di papaveri alti alti alti (sic), abbiamo così avuto uno sconnesso capannone…” e alla via così! Altra perla: “L’unica idea
dell’incoerente allestimento è la riduzione degli dei e degli eroi a
una banda di straccioni. Mime…perde la vista (?); Alberico,
probabilmente infortunato nel crollo scaligero dell’Oro, regge con le stampelle una gamba rotta; Wotan cela la divinità sotto un cappellaccio sformato e un mantello sdrucito” etc. Mi sembra più un
servizio da Striscia la notizia che una critica seria.
Paolo Gallarati sulla Stampa. Ovvio, e giusto, panegirico per Muti.
Elogi (misurati) ai cantanti. Le Eaglen viene definita “vocalmente a
posto”. Poi: la mansarda di Mime non è bella, ma può ancora passare;
”insopportabile invece, la trasformazione della foresta primaverile,
attraversata dal sognante mormorio, in un luogo patibolare…”. Per il
nostro Paolo, l’unica scena possibile per il secondo atto è una bella
foresta con fiori e uccellini cinguettanti… “Che cosa c’entri, poi,
il campo di papaveri con la vetta della montagna… etc.”. Giusto: i
botanici ci insegnano che i papaveri non crescono sulla vetta dei
monti. “E quella recitazione, fatta di gambe divaricate e braccia
costantemente aperte (?)…” “Mime vestito da operaio con occhiali e
berretto a visiera, senza che la messa in scena sia esplicitamente
moderna”. Ma questo signore ha visto qualche altra edizione della tetralogia, a partire da quella di Boulez-Chereau, dove (quasi in
*tutte*) Mime è raffigurato con gli occhiali? E poi il
drago-pipistrello, o gli scortesi (se non volgari) commenti sulle dimensioni della Jane Eaglen.
Zurletti su Repubblica. Citare tutti gli improperi sarebbe troppo
lungo. La “mansarda” di Mime è funzionale, anche se di “modesta
qualità inventiva (?)”. Mi piacerebbe sapere cosa intende l’ineffabile
Zurletti per qualità inventiva: forse il bidone di autocisterna dell’allestimento di Kupfer? sarebbe intellettualmente più onesto se
dicesse semplicemente che la scena non gli è piaciuta, senza
mascherarsi dietro vuoti paroloni. Poi, orrore! la foresta: altro che
mormorio, altro che Waldvogel, solo “upupe e gufi… E non una luce
arriva ad illuminare il tetro luogo”. La luce c’era, eccome, ma forse
Zurletti, imitando Sigfrido, al dolce suono si era assopito. E poi,
dulcis in fundo “l’orribile campo di papaveri incandescenti” (in
questo caso non “alti alti alti”). Poi ce l’ha con la recitazione: “Con perfetta contraddizione, poi, in quegli ambienti allusivi (?)
Engel gioca la carta del realismo. Mime riassetta la cucina e prepara
manicaretti per Sigfrido… come un’attiva massaia… addirittura i
guanti per forgiare la spada… Per contro nel terzo atto non c’è traccia di recitazione pertinente, i cantanti sembrano abbandonati a
se stessi…”. Certo nel terzo atto non c’è più il fastidiosissimo
”realismo” dei primi due. Forse anche la musica non è più descrittiva, ma solo espressiva. Ma questo è un particolare trascurabile per il supercritico Zurletti, che alla fine riconosce che, sì, la Eaglen ha
una bellissima voce, ma “non l’eroismo di Brunilde”. A parte anche qui
la “gentilezza” dell’espressione, se ci manca la retorica ci sentiamo
proprio orfani!!!
Isotta, sul Corriere è più problematico, e anche più attento. Ma
qualche perla la fa anche lui, quando definisce il campo di papaveri
uno spot del Mulino Bianco (ai nostri critici, proprio, i papaveri non
sono andati giù!), o quando, anziché cercare l’originalità dei significati registici, si limita a definire la regia un compromesso di
tipo democristiano (e quindi deteriore) fra il tradizionale e
l’innovativo. Mi sembra che questo sia un giudicare la regia facendo
confronti mentali su ciò che c’è già stato, anziché cercare di capire
quello che il regista vuol dire di nuovo. Dove nuovo non significa
imitare un altro che ha già fatto qualche cosa definita come nuovo,
ma significa appunto fare qualche cosa che prima non c’era, cioè creare. Cioè a dire: abbiamo sempre bisogno di un punto di
riferimento per esprimere un giudizio, e questo punto di riferimento
lo cerchiamo nelle categorie che già possediamo, senza preoccuparci
minimamente di capire se, forse, vi sia anche qualche cosa d’altro al di là delle nostre solide categorie.
Il Sigfrido edizione Muti-Engel è una favola, spogliata di tutta la
retorica, di una ragazzo che entra nell’adolescenza e che va incontro
a una avventura più grande di lui, con l’incoscienza, la strafottenza,
le esaltazioni, le depressioni, i tormenti interiori, la smania di agire che un adolescente può avere. Nel suo percorso il ragazzo
diventarà uomo. Le favole non hanno né tempo né luogo. Passano
attraverso immagini che quasi sempre sono proiezioni all’esterno della
nostra fantasia. Questa è la regia di Engel, e questa è la direzione
di Muti.
Chiedo umilmente (e ipocritamente) scusa a tutti, soprattutto a quelli che sono arrivati a leggere fino a questo punto, per la lunghezza.