MANON LESCAUT, alla Scala
Comunque confermo quanto avevo intuito nella diretta: Cura è molto bravo quando deve interpretare parti (o momenti) di grande drammaticità o di intensa passione. È una voce brunita, anche negli acuti non è mai squillante. Sa esprimere molto bene il pathos: 10 e lode per il secondo atto. Il duetto d’amore è stato stupendo: è un duetto d’amore veramente teso. Si passa dai propositi di vendetta alla resa totale davanti ad una seduzione che non trova in lui ostacolo di sorta. Stupendo. Così come è stupendo quel pezzo quando canta “Manon, mi tradisce il tuo folle pensiero“: il senso di disperazione… c’è tutto. Stupendo anche il terzo atto: l’aria finale fa trattenere a stento le lacrima agli occhi. Puccini!!! Ma tutta la marcia funebre, quel ritmato scandire dei nomi dell’appello con un coro e le voci soliste di lei e lui che formano un manto funebre a tutta la scena. Incredibilmente bello. E così va il quarto atto: la dissoluzione, il disfacimento del pensiero, il rattrappirsi su poche parole e su accenni di temi, i temi dell’amore soprattutto, che tuttavia non riescono a completarsi, la sua paura di morire. La Guleghina è una grande artista, la sua voce, meglio ancora, il suo canto si fonde sulla scena con la sua gestualità: è un’attrice di qualità incredibili. Anche Cura (per quanto un po’ più fermo) sa tenere in mano la situazione.
Ecco, gli unici nei, se si vuol cavare un ragno dal buco, e comunque mie opinioni del tutto personali:
1) Nel primo atto la voce di Cura dà un tono troppo altezzoso, troppo sicuro di sé a Des Grieux. “Donna non vidi mai” è un aria sognante, un timido studente si sta accorgendo che dentro di lui nasce l’amore, sperimenta questa meravigliosa sensazione, ne è affascinato, soggiogato. Con l’espressione del volto Cura ha cercato di impersonare questo stato di sogno. La sua voce mi è sembrata, invece troppo tesa, troppo “presuntuosa”. E così “Fra voi belle brune e bionde” è un’aria scherzosa leggera, ma la sua voce non riesce ad esserlo in modo del tutto convincente.
2) La voce di Cura è molto bella: una voce tenorile brunita, intensa. Tuttavia vi è qualche neo. Per esempio il cambiamento di timbro a cui è costretto quando cambia di tonalità non sempre è gradevole. Negli acuti deve spesso appoggiare la voce sulla nota bassa, quasi avesse bisogno di una rincorsa. Io non amo le dimostrazioni atletiche. A me piacciono le voci che vengono emesse senza che si senta lo sforzo, l’impennata.
3) La sua gestualità è un po’ troppo rigida (se confrontata quella rutilante della Guleghina). Le scene sono meravigliose: tradizionali, certo, ma molto eleganti, raffinate. Non mi sento di descrivere tutto. Questo alla fine diventa anche inutile. Posso citare una delle cose che mi hanno colpito: nell’ultimo atto, quando la soprano inizia l’aria “Sola, deserta e abbandonata“, il cielo, di intenso color arancione, cambia colore. Compaiono nubi nere che lentamente, fino alla fine, finiscono per fondersi con i cupi accordi che concludono l’opera. Bellissimo!
La regia: la disposizione delle masse nelle scene corali, è sempre studiata in modo che – nell’ambito dello sfondo scenico – vi fosse sempre un equilibrio, possiamo dire, veri quadri viventi; e tutto il gioco delle comparse, per dare vivacità alle scene, ma sempre in modo discreto, sullo sfondo. Perfetto. Le gestualità degli attori: nel secondo atto, la Guleghina che si rende conto che Cura sta cedendo, il suo gioco dei piedi che accarezzano la gamba di Des Grieux, oppure il suo rintanarsi sul letto ed abbracciare il cuscino come una bambina sgridata, quando Des Grieux la rimprovera con l’aria “Manon mi tradisce il tuo folle pensiero“. Oppure il finale: piccole cose, come Des Grieux che raccoglie un soprabito, lo arrotola e lo mette sotto la testa di Manon con un affetto infinito…
L’orchestra. Stupendo il ruolo giocato dal flauto nel primo atto, dall’arpa, dai violoncelli. Ben udibile in ogni particolare (altro che registrazione!). La perfetta fusione dei suoni con i colori della scena. Passi essenziali di abilità compositiva, come quel madrigale, di una bellezza da far concorrenza agli originali del settecento (ma direi ancora di più del cinquecento). Il minuetto, leggero, vera preparazione alla drammatica scena del duetto d’amore. La concitazione delle ultime battute dell’atto (paura, avidità, panico…). Potrei continuare. Si può dire che ogni scena è stata curata in modo ben visibile, sempre tenendo un costante rapporto fra i colori della musica e quelli della scena. I tempi di Muti sono stati più veloci nella media (sia pure con scene giustamente rallentate). Questo ha permesso di evitare sdolcinature delle quali l’opera non ha assolutamente bisogno. L’orchestra di Puccini è un’orchestra estremamente eloquente: il duetto d’amore del secondo atto ha accenti che qualcuno (forse non a torto) ha definito wagneriani. Guai a fare accentuazioni improprie. Si rischia di finire nella retorica e quindi nella noia.