DIE GÖTTERDÄMMERUNG, alla Scala
Il Crepuscolo degli dei è un opera che si differenzia sotto molti aspetti dalle altre giornate della Tetralogia. Drammaturgicamente è molto più movimentata; la trama è intrigante, vi è perfino, nel secondo atto, la soluzione di un piccolo giallo: Brunilde si accorge che l’anello che le è stato tolto da Gunther in realtà è sul dito di Sigfrido. Di qui lentamente apre gli occhi e aggiunge tragedia alla tragedia. In un altro post, facendo un arbitrario (ma non del tutto peregrino) parallelo con la tragedia e con l’arte greca, avevo paragonato questa terza giornata a una tragedia di Euripide, o addirittura all’estetica ellenistica. Le giornate precedenti mi sembravano richiamare più Sofocle ed Eschilo, oppure l’arte classica e quella arcaica. A parte il parallelo, discutibilissimo, resta il fatto che in questa giornata vi è un maggior movimento. I protagonisti sono tutti esseri umani, e le presenze divine o paradivine, stanno sullo sfondo senza partecipare direttamente all’azione.
Sotto l’aspetto musicale, nel Crepuscolo si avverte, direi ancora di più che nel terzo atto del Sigfrido, l’interruzione di quindici anni intercorsa dal completamento del secondo atto del Sigfrido. (E ricordiamo anche che in questo intervallo Wagner compose il Tristano e I maestri cantori). Il trattamento dei leitmotiv in questa giornata è molto diverso che di quello delle giornate precedenti. In queste, l’affermazione di Debussy che definiva i leitmotiv dei segnastrada, poteva avere anche un senso, almeno in molti casi. Nel Crepuscolo la situazione è cambiata. Il leitmotiv viene introdotto, è vero per caratterizzare un personaggio o per significare un evento, ma subito dopo entra in un intricato gioco, in cui i diversi leitmotiv si intrecciamo, si modificano come melodia, come timbro, come tempo, come ritmo, spesso al limite della riconoscibilità. E partecipano tutti a un gioco di contrappunto e di sviluppo armonico anch’esso rapidamente cangiante. Insomma mi pare che la musica entri nell’ambito della drammaturgia in modo molto opportuno, arricchendo gli eventi scenici di reminiscenze, di aspettative, di sospensioni, e di violente risoluzioni, che appunto l’evento drammatico sembra richiedere.
Ecco, questa lunga premessa, per dire che la direzione di Muti e la
realizzazione scenica, secondo il mio punto di vista, hanno messo in
splendido rilievo questi aspetti. Cioè hanno dato all’opera quel
carattere teatrale che l’opera d’arte totale, secondo le intenzioni di Wagner, doveva dare. Il fraseggio mi è sembrato molto eloquente,
accentuato da variazioni dinamiche dell’orchestra. I leitmotiv espressi
nel modo più chiaro possibile, con un’orchestra che ha seguito le
indicazioni del maestro molto fedelmente, con suoni limpidi, bene
articolati. Anche quel difficile passaggio a più corni in contrappunto del secondo atto (che alla prima, almeno per quello che ho sentito, ha
manifestato qualche incertezza), ieri sera è stato molto pulito ed
esguito in modo impeccabile. Il risultato è stato un fiume ininterrotto
di musica che costringeva all’ascolto, quasi impedendo di accorgersi del
passare del tempo.
Anche la scenografia, la regia hanno contribuito al successo dello
spettacolo. Mi piace pensarla come una scenografia greca. Tranne che in
occasione dei cori del secondo atto, il palcoscenico è stato quasi
sempre spoglio. Nessun barocchismo nelle scene, ma gioco di luci , per
lo più bianche, neutre, su colori scuri, nei costumi, negli sfondi. La
scena iniziale delle tre norne, molto bella, ha introdotto
immediatamente a questo sapore “greco” della rappresentazione. Queste
tre divinità erano vestite di un nero lucente, e sul palcoscenico erano
quasi immobili, o con spostamenti lentissimi, davanti a uno sfondo nero,
illuminate da fasci di luce bianca che dava loro un aspetto di
ineluttabilità propria del fato. Non posso descrivere tutte le scene,
ma mi soffermo solo su due: la morte di Sigfrido. La scena è quella
della foresta all’inizio del terzo atto: una foresta di alti abeti, color verde cupo. I cacciatori non sono i soliti amiconi con le solite
pacche sulle spalle, ma figure che si perdono negli alberi, quasi sempre
immobili. Lo sfondo e in continuo leggero movimento dando una sensazione
di vita. Ma il tutto lascia presagire la tragedia. Quando Sigfrido viene
colpito alla schiena dalla lancia, con cambiamenti lentissimi, quasi impercettibili, lo sfondo diventa bianco, la foresta appare in
controluce, gli alberi non sono più verdi, ma silouhette nere, con rami
secchi, spogli. Questo durante il canto di Sigfrido in cui l’eroe
ricupera la memoria e invoca Brunilde. La scena si svuota, Sigfrido
rimane solo. Alla morte il colore dello sfondo cangia in un verde
pallido, e inizia la marcia funebre. C’è anche l’episodio del cavallo,
che si ferma a salutare il suo padrone. Il tutto è molto commuovente.
La seconda scena è per una critica, ed è per l’incendio finale. Tutto
il lungo monologo finale di Brunilde si svolge a scena semivuota. I
pochi personaggi rimasti rimangano immobili. Anche Brunilde fa pochi
movimenti, lentissimi. Poi l’incendio. Qui forse il regista non ha
raggiunto l’emozione che ci si poteva attendere, e c’è stata dissociazione fra la musica, estremamente intensa, e il quadro scenico, che mi è sembrato abbastanza banale: sfondo che si colora di rosso,
fumo che esce attorno al corpo di Sigfrido, e alla fine, cambiamento di
colore verso l’azzurro con la comparsa delle figlie del Reno, il grido
di Hagen e il suo trascinamento sul fondo.
A parte queste osservazioni, tutto ha dato l’impressione della grande
tragedia greca, senza retorica, senza orpelli. Anche il simbolismo,
rappresentato dal famoso cerchio al centro della scena non ha avuto una
grandissima funzione. Forse dall’alto si vedeva meglio. Dalla platea si
è visto poco (un po’ il contrario dell’altro simbolismo di cui si è
tanto discusso, il cubo del Macbeth).
Il cantanti. Direi, tanto per non impugnare la matita rossa e blu, e
mettermi a fare il pignolo (non ne sono capace, e comunque non mi
interessa più di tanto) sono stati tutti all’altezza della situazione.
Certo, forse quella di Schmidt non era la voce più adatta, quella della
Eaglen aveva le note basse troppo deboli, troppo spesso coperte dall’orchestra, la Meier ha spopolato con il suo lungo racconto, Ridl ha
sfoderato una grande voce e una grande presenza scenica, gli altri sono
stati tutti all’altezza dei loro ruoli, sia come voce che come capacità
di muoversi sulla scena, senza melodrammismi. Ma per me quello che conta
è stato il risultato finale, e questo è stato di altissimo livello.
Insomma un Crepuscolo molto bello, che ha suscitato un grandissimo
entusiasmo in sala (come buona pace di quelli che lo hanno criticato
senza averlo visto). Quello che mi è parso
significativo riguardo i gusti del pubblico, è stato il fatto che hanno
applaudito tutti i cantanti, con più o meno forza (Ridl e la Meier
hanno ricevuto la dose maggiore), ma Muti lo hanno gratificato di un’ovazione. Questo, e spero che sia così, è un segno che quello che ha attirato di più gli spettatori, è stata la rappresentazione in sé, e l’ovazione a Muti ha voluto significare l’entusiasmo per uno
spettacolo del quale Muti, come vertice della realizzazione, è stato
identificato come il principale responsabile.
Un’ultima annotazione. Il cambiamento di regia, rispetto alle altre giornate della tetralogia rappresentata alla Scala, è stata una mossa che, ricredendomi rispetto a quanto pensavo prima di vederla, devo considerare giusta, azzeccata. Io ho sempre affermato che la regia di Engel e Rieti era un’ottima regia. E ne sono ancora convinto. Ma questa, ricuperando lo spirito della tragedia greca nella sobrietà della scenografia, nella lentezza dei movimenti (solo Hagen, a tratti presentava una certa vivacità, e in minor parte anche Sigfrido), nella scelta dei colori, secondo me è stata geniale.