TURANDOT, dalla “Città proibita” di Pechino (Diretta TV)

Ho appena finito di ascoltare la Turandot, trasmessa da tele+. Si tratta dell’edizione eseguita a Pechino nella Città Proibita. Sul podio Zubin Metha, ma ho preferito dire “diretta da Zhang Yimou”.

Devo fare preliminarmente due osservazioni: anzitutto si è trattato di grande teatro. Poi dirò che cosa mi ha colpito di più. In secondo luogo in questa versione, diretta per la televisione da un certo Hugo Kahn, ho avuto un sentimento di irritazione. Quello che immaginavo grande teatro sulla scena, lo schermo televisivo (in questo favorito dalla grandiosità della coreografia) a volte sembrava ridurre certe scene ad un film hollywoodiano in costume, soprattutto in alcune scene di massa, dove le carrellate, le sovrapposizioni di immagini, e certi ampi ‘fortissimo’ dell’orchestra finivano per gonfiare quello che la mia immaginazione mi suggeriva invece essere uno spettacolo *teatrale* di grande raffinatezza.

Chiudo su queste osservazioni, dicendo che generalmente sono molto contrario alle opere rappresentate “nei luoghi e nei tempi”, come lo è stata la Tosca in TV qualche anno fa, o come immagino sia stata l’Aida alle Piramidi. Qui, invece ho trovato lo spettacolo bellissimo: non per la Città proibita, ovviamente, ma per la regia di Yimou.

Dunque, quello che mi ha colpito è stata la ricchezza e il fasto dei costumi, delle masse, delle danze, dei colori, della coreografia in genere, dei movimenti scenici. Chi ha visto Lanterne rosse (ma anche la Storia di Ju Dou) può immaginare tutto questo. Ma anche un altro film deve essere ricordato: Addio mia concubina, di Kaige Chen, un film sull’Opera di Pechino e sui suoi fasti. Mentre ascoltavo la musica e vedevo scorrere le scene, e ripensavo alle scene dell’Opera di Pechino, e pensavo come questa rappresentazione potesse essere una splendida fusione fra l’arte di due mondi lontani, che nella magia del suono, dei timbri, delle luci, dei colori hanno trovato intensi momenti di incontro.

Alcune scene vanno segnalate per la loro bellezza: l’invocazione alla Luna nel primo atto. Veramente magica, con l’apparire di quelle figure femminile evanescenti, ammantate di bianco, che fanno da cornice a una musica piena di mistero, e di sapore notturno. La coreografia qui è raffinatissime, leggera, piena di incantesimo. È la scena che mi è piaciuta di più.

Poi la capacità di Yimou di dare vita visiva alle emozioni che nella Turandot non mancano: Puccini non perde il suo vizio di commuovere a fondo lo spettatore, e Yimou gli va dietro fedele fedele.

La scena della soluzione degli enigmi è tesa, emozionante. La musica rarefatta durante la meditazione, trionfale nelle risposte, sottilmente perfida nelle domande, ha un corrispettivo visivo che aiuta lo spettatore ad immergersi nell’emozione del momento.

La morte di Liù, forse il punto più commuovente di tutta l’opera, trattato con una dolcezza infinita, pur nello sfarzo della scenografia e dei costumi. Anche l’episodio meno bello (e teatralmente più inutile) della Turandot, all’inizio del secondo atto, nella scena dei tre ministri, Yimou ha saputo alleggerire il tutto con delle proiezioni su un piccolo schermo che raffiguravano scene di grande dolcezza, quando i tre rievocavano la loro terra natia.

Basta. Ho portato alcuni esempi delle scene che mi hanno colpito di più. Ma tutto lo spettacolo teatrale si svolge in un’atmosfera di grande raffinatezza, ma anche di grande fasto, quale appunto l’Opera di Pechino, è solita presentare.

La realizzazione musicale: credo che sia inutile parlare delle Turandot come opera, tanto è ben conosciuta. Mi basta ricordare il raffinatissimo cromatismo non solo delle voci, ma soprattutto dell’orchestra, coloratissima nei timbri. La scala pentatonica, largamente impiegata, finirebbe per stancare, se non fosse sostenuta con ricchezza da questo cromatismo che lancia Puccini nella musica del XX secolo, e di cui qualche embrione era già apparso in opere come La fanciulla del West e soprattutto nel Trittico. Ecco, sarebbe interessante una analisi comparativa fra Turandot e Butterfly, sotto questo aspetto: entrambe ricche di reminiscenze musicali esotiche. Ma quale differenza di trattamento orchestrale!

Nell’ambito dei personaggi, se si pensa a un personaggio femminile, in Turandot, quella che riceve l’eredità delle protagoniste pucciniane, a me non sembra la principessa, ma Liù. Ho parlato dell’emozione della sua morte. La cosa interessante è che Puccini, secondo me, aveva intenzione di far sì che alla sua morte Liù passasse il testimone a Turandot. Ma qui tutto si perde. Il finale, notoriamente non di Puccini, non emoziona per nulla. E questo è il lato più brutto dell’opera, che ha una caduta molto brusca, e tutto sommato fastidiosa.

Il cast: Mi sono piaciuti Calaf, interpretato da Sergej Larin, e Liù, interpretata da Barbara Frittoli. Buono anche Timour, interpretata da Carlo Colombara. Gli altri, secondo me, navigano fra la mediocrità e la scarsa consistenza, a partire da Turandot, interpretata da Giovanna Casolla. Molto buona invece mi è sembrata l’orchestra del maggio Musicale Fiorentino, con annesso Coro, e la direzione di Zubin Metha, a parte certe inflessioni retoriche nelle scene di massa, che, così, alla televisione, con una musica condotta a una dinamica ampia, potevano ricordare certe scene di massa di film hollywoodiani in costume. Ma questa è una mia impressione televisiva. Sarebbe stato molto meglio aver potuto vedere questo spettacolo dal vivo.

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