MAZEPA alla Scala
Mazepa. Con una “p” sola, come si ostinano a pronunciarlo e a scriverlo in caratteri cirillici i Russi. Va beh! Contenti loro! È un’opera bellissima. Bellissima dal punto di vista drammaturgico. Bellissima dal punto di vista musicale. Bellissima perché musica e drammaturgia si compenetrano in modo che raramente è dato di vedere.
Dal punto di vista drammaturgico la vicenda è compatta, concentrata. Si svolge con estrema intensità: intensità di situazioni, intensità di sentimenti in un arco cha da un inizio quasi idilliaco (la fanciulle che giocano e invitano Maria a fare altrettanto, Maria che in un bellissimo monologo esprime il suo amore per Mazepa), appena increspato dall’amore non corrisposto di Andrej, via via entra in un clima sempre più drammatico: due amici che si trovano in una situazione di contrasto sempre più violento sorto dall’amore che lega la giovane fanciulla all’anziano etmano. L’introduzione sinfonica mette già lo spettatore in un’atmosfera di incombente tragedia. L’inizio con gli archi bassi (contrabbassi) è cupo. Gli squilli degli ottoni sono minacciosi. Dolcezza malinconica è evocata dai legni (bellissimo l’assolo introdotto dal corno inglese). Poi, nell’ambito dell’azione teatrale la musica esprime molto eloquentemente ciò che avviene sulla scena. Dalla dolcezza del canto delle fanciulle, all’onirismo dell’aria di Marija, all’ambiguità del duetto con Andrej, alla musica quasi accattivante dell’incontro dei due protagonisti, fino agli agitati cori della lite. Il primo atto finisce con Maria che segue Mazepa e la sua famiglia, umiliata dalla prepotenza di quest’ultimo, si prepara alla rivincita, con un bell’assieme di intensità guerriera. Ma la nota conclusiva del primo atto non è sulla tonica. La musica resta come sospesa, così come sospesa resta l’azione. Splendido primo atto nel quale i temi fondamentali sono già presenti: il contrasto in Marija fra l’amore carnale per Mazepa, e l’amore filiale per il padre. Il contrasto fra i due ex amici: contrasto che partendo dall’opposizione del padre alle nozze, diventa alla fine politico: Mazepa ha in animo di tradire lo zar. Tutto questo secondo un arco ascendente che procede senza forzature, ma con decisione.
Nel secondo atto la tragedia scoppia in tutta la sua intensità. L’arco ascendente del primo atto ha un’impennata. Il padre, non avendo creduto lo zar al tradimento di Mazepa, è imprigionato da quest’ultimo, torturato e condannato a morte. Ma a questa situazione si sovrappone l’amore fra Marija e Mazepa. Amore vero, intenso, che tuttavia trova la sua conclusione orrenda nel fatto che la figlia, ignara, assiste all’esecuzione del padre. La follia è la conclusione inevitabile. Qui il climax è preparato da due monologhi disperati: il primo quello di Kocubej, sconfitto, disonorato, condannato a morte; il suo canto è un canto di rassegnazione disperata che trova solo in Dio la possibilità di una vendetta. Il secondo quello di Mazepa, costretto dalla sua stessa ambizione a uccidere il padre della donna amata. La sua disperazione ha toni drammatici, e si mescola con l’invocazione ripetuta a Marija, il cui amore è proiettato contro gli eventi distruttivi rappresentati dal suo sogno politico. E successivamente il climax si avvia alla sua esplosione, prima con un duetto fra Mazepa e Marija, e subito dopo con il duetto di Marija con la madre, che la informa dell’imminente esecuzione del padre. Nel duetto fra i due amanti la musica sottolinea un contrasto di fondo. Marija vorrebbe più amore e i suoi accenti tradiscono una certa delusione. Mazepa, in tono affannoso, è costretto a rivelarle i suoi intrighi, e spera, con un misto di apprensione e di arroganza, che Marija, fra lui e il padre, scelga lui. Lo scioglimento del duetto, in modo lirico, in cui l’amore fra i due sembra rifiorire, si continua in un breve arioso di Marija che ammira la notte stellata, non senza inquietudine, e con nostalgia del padre. Il secondo duetto, che comincia subito dopo, dà una svolta terribile e decisiva alla situazione. Il canto della madre è denso, teso, reso particolarmente bene dalla voce del mezzosoprano. Il tema della disperazione ripetuto più e più volte. Bisogna salvare il padre! In tutta questa scena, come nella scena precedente, ottoni fuori campo ci fanno capire che il meccanismo della tragedia è in moto e non potrà essere fermato. L’atto si conclude con la terribile scena dell’esecuzione, e la follia di Maria. Qui il coro della folla è un coro lugubremente festoso, come accade nelle pubbliche esecuzioni. Nell’opera integrale addirittura è presente un cosacco ubriaco, e c’è una specie di battibecco fra questi e il coro. Rostropovic, secondo me giustamente, ha tagliato la scena del cosacco ubriaco, che finisce per rallentare un’azione che invece ha uno svolgimento convulso. Il vociare della folla è interrotto da Kocubej, che entra sul palco dell’esecuzione ed ha una intensa preghiera che costringe la folla a un moto di pietà. Il fortissimo orchestrale conclude questa scena, vero climax dell’opera, con l’arrivo e la disperazione di Marija e della madre, che impotenti assistono all’esecuzione.
Il terzo atto riporta la curva drammaturgica verso la dissoluzione finale. Mazepa, e i suoi alleati svedesi hanno perso la battaglia. L’intermezzo musicale, cui Čajkovskij ha dato proprio come titolo La battaglia di Poltava è uno straordinario brano di descrizione orchestrale. Ad un inizio nel quale prevalgono i toni forti e squillanti degli ottoni, le frenesie degli archi, cioè la battaglia vera e propria, segue un’atmosfera di dissoluzione. La battaglia ha avuto corso, e l’esercito sconfitto è in rotta. Anche Mazepa fugge, e incontra Andrej che ha ancora un sussulto di vendetta. L’aria di Andrej è l’ultimo segno di vitalità prima della dissoluzione finale. Ma anche Andrej muore, ucciso dall’etmano. Ora la scena è dominata da Marija e dalla sua follia. Più a nulla valgono gli ultimi richiami di Mazepa al loro amore. Marija ora naviga in un mondo popolato dai fantasmi di una vita, la cui felicità, già messa in discussione dall’abbandono della famiglia, è in un attimo crollata sotto la scure che ha decapitato il padre. E l’unico suo rifugio non può essere che il volto familiare del morente Andrej, che la fanciulla accompagna nella morte con un struggente ninna nanna, mentre Mazepa, ormai disperato, prosegue nella sua fuga.
Questo è teatro, grande teatro. Le regole formali sono perfettamente rispettate. L’azione è compatta, intensa. Non vi sono lungaggini, sfilacciamenti, scene inutili. Ogni scena si inscrive perfettamente nell’arco della drammaturgia. La musica è di un’eloquenza formidabile, con sapiente distribuzione degli assoli, dei dialoghi e delle scene d’assieme. Forma e sostanza si combinano in un equilibrio che considererei perfetto. L’attenzione dello spettatore è catturata dall’inizio alla fine.
Rostropovic è stupendo. L’orchestra sotto la sua direzione ha una vitalità affascinante. “Morde” l’azione, è incalzante. Già nella ouverture sinfonica si sente l’energia contenuta in una tragedia così densa di sentimenti forti, di emozioni violente. Il suo incipt sugli archi bassi è perentorio, e mi ricorda l’incipit del Coriolano di Beethoven diretto da Toscanini. Ma poi, tutta la sua direzione segue con la stessa cifra. L’orchestra in questa opera ha una importanza enorme, non solo per i due bellissimi brani orchestrali (ouverture e La battaglia di Poltava), ma per tutti i suoi interventi durante il canto, con le dovute sottolineature all’agitarsi delle passioni e dei sentimenti sulla scena. Come si dice, la musica arriva ad esprimere ciò che le parole non possono fare. E Rostropovic non molla un attimo. L’orchestra incalza in continuazione, e io, come ascoltatore ero veramente assorbito dal suo suono. Forse l’unico neo, è stata la presenza alla fine del secondo atto, di un insieme di ottoni sui palchi, molto vicino al mio posto. Questo mi ha distratto un po’. Ma probabilmente la colpa è stata della mia posizione.
La regia. Distinguerei fra regia e scenografia. La regia di Lev Dodin, come concezione dello spettacolo, secondo me, è stata molto intelligente. Per tutta l’opera, la scena è stata dominata da un’impalcatura che non era altro che il patibolo sotto il quale tutta la tragedia si svolge. Quindi, regia sostanzialmente simbolista. I colori erano tutti sul chiaro (scherzando, ho detto che erano gli stessi colori che Armani usa nelle sue collezioni): Colori molto tenui, giallo leggero, celeste chiaro, e prevalenza di bianco sporco, com’era il colore dell’impalcatura sulla scena. Scena che definirei brutta a vedersi, piuttosto squallida, ma significativa. Colori che mi sono sembrati molto bene inseriti nel colore musicale, mai vivace, mai scintillante, neppure quando entrano gli ottoni. I movimenti scenici sono molto ben studiati. Per esempio nel primo atto, durante la lite, Mazepa, nella sua arroganza, occupa la parte centrale del palcoscenico, mentre la famiglia è riunita in un angolo, quasi come pecore ammucchiate davanti alla minaccia del lupo. La scena è molto eloquente. Così il duetto d’amore del secondo atto è estremamente sensuale nelle movenze. Il contatto fra i due è fisico, così come fisicità si avverte nelle profferte amorose di Mazepa. La scena della prigione è lugubre, rafforzata dai carcerieri che indossano uno strano palandrano, anch’esso bianco sporco, e hanno il volto coperto da una specie di turbante. Si aggirano fra i corpi dei condannati, portandoli e riportandoli, in modo da accentuare l’orrore della scena e la disperazione del canto di Kocubej. Anche la scena dell’esecuzione è potente. Il patibolo, presente per tutta l’opera qui entra in funzione. Mentre la folla si accalca al di sotto, sulla piattaforma si muovono carcerieri, aguzzini, boia, popi, sempre con quei costumi che sembrano renderli più dei fantasmi che degli esseri umani.
L’intermezzo della battaglia è stato figurato, anche qui tuttavia in modo simbolico. Niente armi, uniformi o altro. Solo una teoria di uomini, con i soliti costumi dei soliti colori, che al momento in cui l’orchestra descrive la fine della battaglia, si spogliano di una specie di mantello ed escono lentamente (l’esercito sconfitto).
La cosa che mi è piaciuta meno, è stata un specie di altalena sull’impalcatura, sulla quale si sono verificati i due duetti fra Marija e Andrej. Il significato simbolico è abbastanza chiaro, ma esteticamente non l’ho trovato di mio gradimento.
I cantanti. Strepitoso il basso Kotscherga. La sua è una parte molto importante. La voce è molto bella. L’intensità del canto superba: sia negli assiemi (primo atto), sia, in modo meraviglioso nel monologo del secondo atto e nella preghiera davanti al patibolo. Sicuramente la vetta del cast. A me è piaciuta molto anche la Guriakova. Voce tesa, drammaticamente molto efficace. Il canto nelle sue diverse componenti: l’onirismo del primo arioso, l’amore preoccupato, ma intenso del duetto con Mazepa, la follia del terzo atto che culmina con la nenia, molto convincente. Cantare e muoversi sulla scena è per questo soprano un tutt’uno. Ne balza fuori un personaggio assolutamente credibile, capace di trasmettere il tumulto dei sentimenti che in lei si agita. Se si vuole cercare il pelo nell’uovo, forse negli acuti, la voce tende a diventar un po’ stridula. Personalmente questo non mi ha dato alcun fastidio. Di buon livello ho trovato anche il tenore e il mezzosoprano, entrambi bene inseriti nei personaggi (la Gordounova l’ho trovata particolarmente brava nel duetto con Marija). Un po’ meno il baritono, Mazepa, Alfred Muff. Molto bravo nei movimenti (forse un certo eccesso nell’arroganza: Mazepa, è sì arrogante, ma pieno di sentimenti, fra cui quello più espresso è il suo amore per Marija), ma la voce non era particolarmente efficace. Ma, tutto sommato, non ha poi del tutto sfigurato.
In complesso devo dire che lo spettacolo mi è molto piaciuto. Sono stato attratto dall’inizio alla fine, e alla fine sono rimasto in preda a una profonda impressione. La stessa cosa deve essere successa a molti in teatro, visto il silenzio quasi religioso che ha accolto l’ultima nota dei violini che si è andato smorzando lentamente fino al nulla. Poi grandissimi applausi, ovviamente, più di tutti per il basso, per il soprano e per il maestro.