IL BARBIERRE DI SIVIGLIA, alla Scala
Come bravo abbonato al turno C arrivo buon ultimo ad esprimere il mio punto di vista, ovviamente da incompetente, ma comunque spettatore. Ho letto sia sul NG che su alcuni quotidiani, vivaci se non sprezzanti critiche nei confronti di Arias, il regista. Questo ha sollevato la mia curiosità un po’ preoccupata, dato che per me il lavoro del regista è parte integrante della rappresentazione.
Ed ecco la prima novità (almeno per me). La sinfonia è stata eseguita a sipario alzato, accompagnata da personaggi in movimento, che intendevano raffigurare la lotta fra Almaviva e Don Bartolo per il possesso di Rosina. Poteva essere una cosa fastidiosa. Ma la scelta del regista di raffigurare i personaggi in abiti scuri su una sfondo scuro, dando a loro una aspetto che ricorda le ombre cinesi, non mi è dispiaciuta. E non mi ha distratto dalla musica. Anzi, offrendo agli occhi qualche cosa di leggero su cui soffermarsi, mi ha aiutato a impossessarmi della musica, ancorandola alle scene. E così la sinfonia l’ho goduta magnificamente, anche aiutato da una direzione e da un suono orchestrale molto nitido, con bella e pulita presenza dei vari timbri strumentali.
Quando il sipario si solleva appare una città che mi ha fatto venire in mente un quadro di De Chirico. Una città morta: strade deserte, delimitate da case mute, con le finestre quasi vuote occhiaie. E tale sensazione si è rafforzata quando dal fondo sono comparsi alcuni mimi in uno strano costume grigio uniforme che mi richiamavano (ovviamente in senso molto lato) i manichini metafisici di De Chirico. Mi sono subito chiesto se eravamo davanti a una regia “metafisica”. Ovviamente no. Le scene successive riportavano il tutto su un piano di maggior semplicità, anche se non del tutto tradizionale.
La chiave di lettura mi è parso che fosse una regia sospesa fra l’elemento farsesco e quello della commedia brillante: tuttavia senza mai (o quasi mai) forzare la mano in un senso o nell’altro. Leggerezza, ecco quella che mi è sembrata la caratteristica più interessante: una fantasia leggera, gradevole, senza forzature, senza simbolismi occulti, ma anzi, al contrario, simboli espliciti fino all’elementarità, ma mai sfacciati o fuori luogo. Ogni quadro scenico poteva essere una bella illustrazione a pastelli, frutto di fantasia, senso dell’equilibrio, di levità e di buon gusto, (senza tuttavia escludere qualche caduta, almeno secondo me). I simboli che compaiono a illustrare alcune frasi del testo (la sfilata di personaggi in parrucchino durante la cavatina, le forbici e il pettine calati dall’alto, la luna e il sole intercambiabili, il vulcano che compare al duetto “All’idea di quel metallo“, la successione di mimi nella “Calunnia” fino alla comparsa finale di una batteria di cannoni, l’immagine del martello e dell’incudine a mo’ di ombra cinese, e se ne potrebbero citare molti altri), molto criticati da qualcuno, a me sono piaciuti: non tanto in quanto simboli, quanto piuttosto come “cose da vedere”, quasi con gli occhi di un bambino, lontano da interpretazioni cerebrali. I colori, soprattutto, il disegno (insisto a dire che tutte le scene potevano essere degli splendidi pastelli quasi per un album per l’infanzia), davano una sensazione di leggerezza che si accompagnava molto bene con la musica. Valga ad esempio l’arrivo di Figaro in aerostato. Un’entrata certamente non tradizionale, ma che colpiva più per i colori vivaci a bande verticali bianche e rosse dell’areostato, che andavano ad animare una città che all’inizio era offerta come morta, che non su l’idea di forzata “originalità”. E lo stesso dicasi per il costume (da torero?) di Figaro, anch’esso molto cromatico, e ampiamente contrastante con gli altri costumi, che dava a Figaro il risalto necessario senza dovere ricorrere a farsesche e volgarotte gags.
Anche i movimenti scenici erano improntati alla leggerezza, al gusto del gradevole: a volte, soprattutto nei momenti in cui il ritmo della musica è più marcato, mimi o anche personaggi sottolineavano con movimenti del corpo il ritmo, quasi per dire: stiamo recitando della bella musica, e siamo contaminati da questi bei ritmi, che nella vostra testa, nella vostra sensibilità, sicuramente contaminano anche voi… Quindi nulla di drammatico, o di traumatico, ma anche qui leggerezza e ammiccamenti al pubblico. Forse qualche eccesso mi pare di averlo notato, soprattutto nella scena di Don Alfonso, in cui la caricatura del pianista mi pare sia stata un po’ troppo accentuata.
Degna di nota la recitazione di Don Basilio, non più il solito vecchio barbagianni, mezzo scimunito, ma una persona sveglia, che non si lascia infinocchiare, e viene sconfitto solo dall’iniquo potere della nobiltà (forse sarebbe piaciuto a Beaumarchais): movenze, sguardo, portamento di una persona che lotta per i propri obiettivi, consapevole di avere davanti un avversario potente; ma tutto sempre nel clima della commedia-farsa, e nella grafia di un album per l’infanzia. Insomma, il classico “cattivaccio”. E Antoniozzi è stato veramente bravo ad incarnare questo personaggio, certamente molto più difficile, ma anche molto più interessante dal punto di vista teatrale del solito convenzionalissimo barbogio semiscimunito.
Non posso certo descrivere tutti gli episodi degni di essere notati. Sono stati moltissimi.
Che dire delle critiche che sono state fatte alla messa in scena? Intanto, certamente, che sui gusti non si discute. Coloro ai quali non è piaciuta, è giusto che lo dicano. Tuttavia, se mi si permette un po’ di deteriore psicologismo, temo che le critiche, o almeno alcune di esse, provengano più che altro dal confronto che si ha fra l’idea del barbiere che si è radicata nella memoria e nell’animo, e questa edizione. Per apprezzare questa edizione, secondo me, occorre invece avere la consapevolezza che il Barbiere si può rappresentare in tanti modi, che non esiste (come non esiste per nessuna opera d’arte) una interpretazione autentica, o una chiave di lettura immutabile. E che quello che bisogna guardare è il gusto col quale vengano rappresentate le scene, l’unitarietà della chiave di lettura, l’assenza di sbavature o zoppie: insomma se di per sé, indipendentemente dai confronti che si possono fare (anche solo nel subconscio), la rappresentazione piaccia o no. A me è piaciuta. Una rappresentazione molto fresca che nulla ha a che vedere con le messe in scena fotocopia che si differenziano solo per le gags, spesso volgarotte anzichenò, che in genere le caratterizzano.
Che dire degli interpreti? L’orchestra: leggera, ben caratterizzata nei diversi timbri, sottolineava, (ed era a sua volta sottolineata da)i movimenti scenici. (Chailly ha cantato praticamente tutta l’opera mentre dirigeva, segno a mio avviso di coinvolgimento). Il risultato per me è stato il piacere di sentire e guardare contemporaneamente (paradigma del teatro musicale). E tutto mi è parso ben congegnato, con poche (se alcuna) sbavature, quasi scandendo un ritmo più ampio, che è quello che scandisce i toni della vicenda teatrale.
Anche i cantanti sono stati buoni attori. È la prima volta che sento dal vivo una sana tessitura da contralto in Rosina, e devo dire che mi è piaciuta assai di più che non la tessitura da soprano che per molti anni ha dominato le scene. Io non so se la Ganassi scimmiottasse Arsace o qualche en travesti del Rossini serio. Queste cose le diranno gli intenditori. Posso dire solo che la Ganassi mi è piaciuta, complice se vogliamo la piacevole tessitura da contralto. Il fatto che nelle note basse tendesse a volte ad essere un po’ coperta dall’orchestra, non mi sembra peccato tale da considerare brutta la sua prestazione.
Anche gli altri cantanti hanno lavorato bene, mantenendo alto il livello di questa rappresentazione. Non farò un’analisi delle singole voci. Tutte mi sono sembrate di buon ascolto. Frontali è stato un Figaro “normale” senza farsesche o pagliaccesche attribuzioni. Il solo costume era sufficiente a darne risalto. Di don Bartolo, l’impareggiabile Antoniozzi ho già detto (ha ricevuto una vera e propria ovazione). Almaviva ha svolto il suo ruolo con la dovuta eleganza, a parte un certo eccesso nella scena del falso don Alfonso, nella quale mi è piaciuto meno. Surian è stato un don Basilio che ha fatto molto bene la Calunnia, graduando bene il crescendo che porta dalla “brezza assai gentile” al “colpo di cannone“, accompagnato dai movimenti mimici di cui ho detto sopra, che a me sono piaciuti.
Non avendo io il compito di consigliare Arcà, o Chailly, o Arias o chi per loro, ma solo di esprimere il mio stato d’animo, devo concludere che lo spettacolo mi è piaciuto molto, mi ha portato in una stato d’animo di serenità e di piacere. E come me credo che sia stato per molti altri spettatori, visti gli applausi convinti del pubblico, e sentiti i commenti durante e alla fine della spettacolo.