NINA o sia La pazza per amore, al Piccolo Teatro di Milano

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È la prima volta che sono stato al Piccolo Teatro, ora battezzato Teatro Strehler. Non c’è dubbio che è un teatro fatto con gusto, e soprattutto molto ben attrezzato. L’impressione che ne ho ricevuto tuttavia non è stata travolgente. Sotto certi aspetti mi ha fatto rimpiangere il calore e l’intimità che si respiravano nel “vecchio” Piccolo.

L’opera. La critica sui giornali ha accolto con molto calore la rappresentazione di questa opera sottolineando con giusti elogi il ricupero che Muti sta facendo del Settecento napoletano. Era ovvio che le mie aspettative fossero di curiosità ed interesse.

Non conoscevo nulla dell’opera, e tantomeno del periodo; solo qualche lavoro di Pergolesi, come lo Stabat Mater e la Serva Padrona. E per la verità non mi ero neppure coscienziosamente preparato all’ascolto.

Per inquadrare l’opera, la sua origine, il suo significato nell’ambito del periodo storico occorre riconoscere che il Programma di Sala è molto dettagliato, e mi ha consentito di approfondire gli aspetti di interesse. E l’aspetto che più mi ha colpito è il grande successo che essa ha avuto nelle rappresentazioni che ne sono state fatte alla fine del Settecento e nella prima metà dell’Ottocento.

Per la verità occorre dire che, se non c’è dubbio che il riproporre al pubblico moderno un’opera che ha avuto la sua importanza dal punto di vista storico è stata un’operazione ineccepibile, quello che l’ascolto mi ha dato non è stato nulla di più di una musica piacevole, di facile ascolto, ma che mai (se si eccettua forse l’aria più famosa “Il mio ben quando verrà“) mi ha dato la sensazione del capolavoro. Anzi, la sua non indifferente durata alla fine si è sposata con un leggero senso di noia.

Intanto, la struttura drammaturgica dell’opera. È un discorso piuttosto complicato, perché l’opera di Paisiello proviene da un’opéra-comique francese, su libretto di Marsollier in versi e prosa, musicata da Dalayrac (musicista a me del tutto sconosciuto: forse Cioran’s son — il minorista — potrà dire qualche cosa di più?), e rappresentata in Francia, ma anche in Italia con grande successo. Paisiello ne ha recepito il libretto nella traduzione italiana, e con alcune aggiunte di arie, sostituzione di finali etc., l’ha utilizzato per comporre la sua opera, la quale tuttavia ha avuto più di una versione. Una versione rispetta la struttura ad opéra-comique, alternando parti dialogate e parti cantate; in un’altra versione, successiva, evidentemente per avvicinare maggiormente l’opera alla forma italiana, le parti dialogate sono state sostituite da recitativi. La versione eseguita al Piccolo è stata la prima, cioè quella in forma di opéra-comique.

L’impianto drammatico è assai fragile. La vicenda può essere definita come la conclusione di un antefatto che viene raccontato durante l’opera: Nina, giovane fanciulla della nobiltà napoletana, si è innamorata di Lindoro, ma il padre la promette ad un altro pretendente più ricco e più nobile. Lo sgomento di Nina diventa pazzia quando Lindoro si scontra in duello con l’altro pretendente e rimane gravemente ferito, forse ucciso. Nel lavoro teatrale, di fatto, si assiste nel primo atto alla manifestazione della follia di Nina ed ai rimorsi del padre; e nel secondo all’incontro di Nina col redivivo Lindoro e quindi alla guarigione di Nina e al conseguente lieto fine. L’interesse principale dell’opera sta nella pazzia. È una delle prime volte che la pazzia, anziché oggetto di comicità, viene presentata come un problema umano per il quale occorre pietà e considerazione; e, inoltre, che la pazzia non viene più considerata come uno stato irreversibile che cancella la persona, rifugiandola nel limbo degli intoccabili, ma una manifestazione di un grave malessere, al quale una opportuna terapia può porre rimedio.

Non a caso l’opera, o meglio il libretto, è stato scritto in Francia nel pieno fiorire dell’illuminismo, con tutto l’interesse che questo movimento ha suscitato attorno all’uomo e ai suoi problemi. Si potrebbe addirittura azzardare che nel libretto vi siano premonizioni delle successive teorie freudiane.

A queste grosse novità si deve, credo, in particolar modo, il grande successo che hanno avuto sia l’opera originale di Marsollier e Dalayrac, sia l’opera di Paisiello sullo stesso libretto tradotto in italiano; e in particolare, per quanto riguarda la musica di Paisiello, a quel tono di melanconia che gli esegeti considerano proprio dell’animo napoletano.

La musica. La musica di Paisiello è piacevole e di facile ascolto. I critici affermano che questa facilità di ascolto è frutto di un grande lavoro, soprattutto di contrappunto e di costruzione. Non c’è dubbio. Come ho detto in altre occasioni, secondo me l’opera d’arte ha tanto più valore quanto più è elaborata e complessa la sua costruzione, ma tanto più semplice di facile lettura è il risultato che si presenta allo spettatore. Un po’ il contrario dell’Outis, insomma. Tuttavia occorre rilevare che questa facilità di ascolto, si prolunga per tutta l’opera senza mai che venga strappato all’ascoltatore un moto di acceso interesse, un fremito, la sorpresa di una soluzione “trasgressiva”. Tutto fila via liscio per quasi due ore di musica, su un impianto drammaturgico assai semplice, senza eventi drammatici. Fra gli eventi più notevoli, oltre alla citata aria di Nina, c’è un canto pastorale accompagnato dalla zampogna (mi pare uno dei pochissimi esempi di utilizzo di questo strumento nell’ambito della musica operistica), una lezione di canto di Nina alle sue villanelle, e un finale in concertato nel quale gradualmente Nina riacquista la memoria e riconosce il “suo amato bene” guarendo dalla pazzia.

L’orchestrazione è indubbiamente ricca, con gradevole uso dei corni, dei legni e degli archi per sottolineare i diversi momenti del dramma, o, come la si ama definire, commedia sentimentale.

L’allestimento. Questo è stato molto raffinato ed elegante. Le scene erano semplici: un fondale con una enorme finestra ovale di stile settecentesco, e un panneggio. I due elementi scorrendo l’uno sull’altro davano piccoli, ma eloquenti cambiamenti  di scena. I costumi erano eleganti. Il colore predominante era un colore seppia con variazioni verso altri colori, ma sempre con tonalità smorzate e calde. La coreografia era arricchita da mimi (pochi per la verità) con costumi che richiamano le maschere napoletane, e dal coro ben guidato nei movimenti.

L’esecuzione. Direi superba. L’Antonacci, Florez, Pertusi hanno dato veramente uno spettacolo di grande bravura nel canto. Molto meno nella recitazione, ma questo era scontato. L’orchestra molto ben guidata. Il risultato è stato di grande chiarezza. In sostanza è stata una serata piacevole, che ha fatto rivivere un ambiente sicuramente di grande interesse come il settecento napoletano.

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