ARIADNE AUF NAXOS, alla Scala
Finalmente ho potuto vedere la bella rappresentazione dell’Arianna a Nasso alla Scala. Data la lettura di articoli di stampe, recensioni dei critici, e post comparsi sul NG, la mia attesa, già sollecitata da un’opera che conoscevo solo in edizioni discografiche e che trovavo stupenda, era ulteriormente aumentata. La parte musicale l’avevo già ascoltata dalla diretta RAI, ma mancava la parte visiva, in un’opera come questa, io credo, assai importante.
Dirò subito due cose: una è stata la spiacevole sorpresa di avere una conferma sulla non perfetta acustica del Teatro. Dal posto dove ero io, in platea, nelle prime file e sinistra, mentre il suono dell’orchestra era “forte e chiaro”, le voci, soprattutto gli aspetti più delicati della vocalità, per intenderci quella del trio di ninfe, erano molto, troppo deboli. La stessa impressione l’ho avuta per l’aria di Zerbinetta ”Grossemachtige Prinzessin“. E ciò, in contrasto con il bilanciamento molto buono che si era percepito nella trasmissione radiofonica. Questa è stata una spiacevole sorpresa.
La seconda cosa è che l’allestimento mi è piaciuto moltissimo: sia
nella parte musicale, sia nella parte visiva.
Come sempre, la mia attenzione non è stata attratta in modo particolare
dalle voci che, a parte i difetti che ho segnalato (e che da quello che
ho capito mi sembra che dipendano più dall’acustica che dalla
realizzazione), mi sono sembrate tutte all’altezza di potere esprimere
quello che, secondo me è l’aspetto più interessante, e che rende
l’opera uno dei capolavori assoluti di tutta la produzione operistica:
l’ambiguità, cioè la capacità di creare in un gioco di specchi, di
antitesi speculari, che affascina, riflessioni sulla natura dei nostri
sentimenti più vitali, come l’amore e la fedeltà.
Rispetto alla prima rappresentazione, vi sono stati due cambiamenti
importanti: la interprete del compositore non era più la Vermillon, ma
Sophie Koch; e Ariadne non era più la Zvetkova, ma Susan Anthony. Non
mi sembra che le nuove cantanti abbiano in qualche modo migliorato o
peggiorato la rappresentazione. La Aikin ha cantato la sua aria con la
nota bravura. Ma credo che sia molto limitativo incentrare tutta
l’attenzione su di lei, come se nell’opera questo sia l’elemento
portante. È un elemento, certo, anche importante (basti leggere le
preoccupate lettere di Hofmannsthal a Strauss, per chiedere suggerimenti
sul come si fa a scrivere versi per un “pezzo chiuso”). Ma l’opera va
ben al di là di quest’aria, e divertirsi a fare graduatorie su chi è
più o meno brava, non credo che sia il massimo in fatto di
comprensione.
Volumi sono stati scritti sul significato di questa opera, che proprio
per la sua ambiguità, sfugge a qualsiasi tentativo di definirne una
interpretazione autentica. Certamente la stupenda lettera di
Hofmannsthal del luglio 1911, è una chiave di lettura della quale è
difficile fare a meno.
Si può parlare di “teatro nel teatro”; si può parlare di piani di
micro e macrocosmo; si può parlare di amore fatto di fedeltà e di
amore fatto di inquietudine: si può parlare di intreccio fra ironia e
tragedia; si può parlare di fascino del mito greco, e sua attualità (o
meglio ancora, eternità); si può parlare di erotismo, e distacco
aulico; si può parlare di coesistenza e disgiunzione fra opera seria e
opera buffa…
E credo che tutto questo si sia esaltato nel momento in cui Strauss e
Hofmannsthal hanno deciso di cambiare l’edizione originale, sostituendo
la commedia molieriana con quell’intenso, relativamente breve, ma
densissimo di significati, prologo. Mi pare che sia proprio questo
prologo che ha dato all’opera tutta quell’ambiguità di cui si parla. Ed
è stato un colpo di genio del poeta, riuscire a convincere Strauss a
questa scelta, alla quale, notoriamente, il musicista per lungo tempo è
stato contrario.
Proprio l’ambiguità dell’opera, consente operazioni interpretative
anche molto distanti l’una dall’altra, pur restando nella legittimità.
Credo che dipenda in gran parte da ciò che testo e musica sollecitano
nella sensibilità del regista e del direttore.
A mio avviso Sinopoli e Ronconi hanno sicuramente privilegiato la parte
tragica dell’opera. Non tanto per gli eventi, quanto soprattutto per il
clima. La scelta registica di un retro di palcoscenico nel prologo,
dominato da colori grigi, e da un incombente senso di “provvisorietà”,
e soprattutto la scelta della riproduzione di quello straordinario
quadro di Bocklin che è L’isola dei morti, nell’opera, hanno dato alla
rappresentazione il senso immanente e permanente della morte.
Straordinaria mi pare sia stata l’invenzione di Ronconi di ricreare il
clima funebre di quell’immagine bianca, indistinta, diritta, in piedi
sulla barca, visibile in primo piano nel quadro di Bocklin, mediante le
figure delle ninfe, in piedi sugli spalti rocciosi, completamente
ricolperte da un drappo bianco. E così gli alti cipressi verdi, le
occhiaia vuote sulle pareti dell’isola come immagini di antiche tombe
rupestri. Si tratta di un’atmosfera funebre pagana, dove manca
l’angoscia o il terrore dell’al-di-là che caratterizza i Requiem o le
marce funebri, ma prevale il senso della morte come quiete, come
silenzio, come rinuncia, o anche come conclusione.
L’aspetto musicale dato da Sinopoli esprime molto bene ciò che Ronconi
ha voluto mettere sulla scena. Rinunciando ad un colorismo esasperato,
che pure la musica in sé consentirebbe, rinunciando a sottolineare gli
aspetti ironici presenti nel prologo, ma anche nell’opera stessa, anzi
stemperandoli mentre accentua gli aspetti psicologicamente più
coinvolgenti, non fa altro che far emergere il clima di morte che
Ronconi ha espresso nella scenografia.
Dello stesso segno mi è sembrata la scelta di far recitare il
maggiordomo con una cadenza, e un’espressione che ricordava da vicino
più quella di un caporale delle SS naziste, che l’ironia con la quale
di solito viene disegnato il maggiordomo servitore di un riccone
settecentesco ignorante e presuntuoso.
Altra cosa che mi è sembrata notevole, è il rapporto fra il
compositore e Zerbinetta, che è poi dilatato nel rapporto fra
Zerbinetta e Arianna. Anche qui, il sottile gioco erotico, espresso più
dalla musica che dalle parole è ben messo in risalto, forse con una
leggera appena percettibile vena di omosessualità. Un po’ come
Aschenbach in Morte a Venezia, il compositore è posto davanti
all’alternativa della passione fatta di ideali, e la passione fatta di
attrazione fisica. Solo che ciò che in Britten diventa un viaggio, qui
rimane a livello di ironica antinomia, senza una vera soluzione. Arianna
ha trovato Bacco. Ma ha trovato l’amore, oppure ha trovato la morte?
Hofmannsthal non si pronuncia. Basti ricordare che le parole conclusive
di Arianna, che H. attribuisce non alla persona, ma alla sua voce,
dicono espressamente “Fa che il mio dolore non si perda”. E qui si entra
nel gioco registico di specchi, di piani di tempo e di luogo. L’isola,
che nel frattempo è girata su se stessa e si presenta con un aspetto
esattamente speculare, ora si apre lasciando intravedere il suo doppio,
ma su un altro piano: cosmo e micro (o macro)cosmo. E questo, sempre per
la specularità delle ambiguità, è avvenuto anche per le maschere, che
cantano su un piano del palcoscenico, mentre i loro doppi danzano
sull’isola. Non ci sono solo i diversi piani dell’amore e della morte,
ma anche quelli dell’amore e della vita. E non si sa dove finiscano gli
uni e comincino gli altri, e se poi siano piani veramente differenti o
non siano piuttosto la stessa cosa, che si mostri a noi con differenze
illusorie.
Elencare le parti affascinanti di quest’opera è difficile, se non altro
perché è tutto talmente bello! Penso alla breve melodia del “Venus
Sohn“, o a quello straordinario, ambiguissimo e breve duetto fra il
compositore e Zerbinetta. O ai ripetuti interventi delle ninfe, quello
iniziale, o quello dell’espressione di gioia per l’arrivo di Bacco, o
quella dolcissime melodia che è il “Tone, tone” ripetuta due volte,
all’indirizzo del canto di Bacco. C’è una delicata, sottile,
evanescente trama di voci femminili che, purtroppo, in teatro non ho
percepito così nitidamente come nella trasmissione radiofonica.
Poi il contrasto, base fondamentale dell’opera, fra la musica “divina”,
”mistica” dei personaggi “dei e semidei”, e quella vivace, “terrena”, a
volte anche triviale, della maschere e di Zerbinetta.
Insomma una ricchezza di emozioni, di interessi, di spunti di
riflessione che raramente mi è capitato di trovare in un’opera.
Hofmannsthal era consapevole di avere scritto un capolavoro, ma era
anche terrorizzato di non essere compreso (come altre volte, nonostante
le difese di Strauss, era avvenuto). E a proposito della sede della
rappresentazione, temeva che essa venisse fatta per “due volte 800
persone e nessun altro, e che tra quelle il novanta per cento è del
genere più disgustoso, critici, colleghi invidiosi, gente del mestiere
- per il pubblico vero e proprio, si sa non c’è letteralmente nessun
posto…”
E in questo senso penso che la preoccupazione del poeta ancora oggi
abbia valore.
Per finire, una curiosità trovata nel leggere le lettere di
Hofmannsthal (lettere che è bellissimo leggere, non solo perché
aiutano a scovare osservazioni importanti sulle opere che egli ha
scritto per Strauss; non solo per capire concordanze e contrasti fra lo
scrittore e il musicista, e i loro caratteri; ma anche e soprattutto
perché sono pura letteratura, estremamente godibili alla lettura): mi
riferisco a un thread in cui si discuteva se la musica è morta; cioè
se le composizioni moderne debbano essere o no considerate ancora
musica.
Ebbene, Hofmannsthal, in una lettera del giugno 1912, a Strauss che gli
aveva proposta alcune modifiche da attuare al testo di Molière, scrive:
“Ho accolto tutte quante le sue aggiunte, con la eccezione di una sola
(l’affermazione del re: che tutte le opere moderne sono senza melodia),
e questo per un motivo che Ella approverà, credo. Prima di tutto mi
pareva che questa frase, con la frecciata contro tutta la modernità
(o contro quelli che contestano tutta la modernità) avesse l’effetto
più di stemperare che di ravvivare. L’autoironia che avevamo in mente
dovrebbe, a mio modo di sentire, aver di mira sempre la propria arte…
etc.”
È evidente che anche all’inizio del Novecento, vi erano molti che non
consideravano musica le composizioni contemporanee. Le epoche cambiano,
ma le logiche umane mica tanto.