PETER GRIMES, alla Scala
Il miracolo dell’opera d’arte è anche quello di coinvolgere lo spettatore su temi e problemi che, nati e pensati in altri tempi, in altre culture, mantengano la loro vitalità anche in tempi successivi e culture diverse.
È il caso del Peter Grimes: il tema del rapporto fra il “diverso” e la società (e la cultura) nella quale è inserito. Questo tema può essere affrontato da più di un punto di vista: da quello del diverso (i motivi e i contenuti della diversità; il trauma psicologico del diverso in una società che non lo comprende e, anzi, lo respinge; l’orgoglio del diverso; il suo disprezzo nei confronti di una società che non lo capisce, etc.); oppure da quello della società (le paure – coscienti o inconsce – provocate dal diverso, l’ansia di stabilità che il diverso mette in discussione, i giudizi più o meno moralistici sul comportamento del diverso, ma anche i giudizi più o meno moralistici sui danni che la società, col suo rifiuto del diverso, provoca ad una persona dotata di sensibilità e quindi, come tutti, soggetto di sofferenza, di paura, di ansia).
Riflettendo sul Peter Grimes mi è venuto alla mente un altro grande capolavoro che affronta questi temi: il Don Giovanni. Questo, proprio per le diverse (opposte?) angolazioni con cui Mozart e Britten affrontano il problema della diversità e dei suoi rapporti con la cultura dominante.
In Mozart il centro dell’attenzione è il diverso, Don Giovanni. In Britten l’attenzione è posta principalmente sul Borough, cioè sulla società, sulla sua cultura, e sulla paura che la società prova davanti al diverso. Questo è almeno ciò che l’opera mi ha suggerito.
La trama è molto semplice. Grimes è un pescatore con un carattere molto indipendente non immune da comportamenti violenti. Un suo apprendista muore annegato durante una spedizione di pesca. Il processo riconosce la sua innocenza, ma la popolazione del Borgo, continua a mostrasi sospettosa nei suoi riguardi, e tende ad isolarlo. Egli è un diverso, e anche se è innocente processualmente, la sua “diversità” lo incolpa. Grimes vorrebbe riscattarsi, ma il suo carattere è quello che è, e il comportamento del Borgo nei suoi riguardi non lo aiuta. Alla fine, anche il suo nuovo apprendista muore in un incidente. Anche in questo caso Grimes è innocente, ma la tragedia si consuma inevitabilmente con la sua follia e il suo suicidio.
Tutta l’opera mi pare impostata nell’identificazione di Grimes con il mare: il mare, questa forza della natura, che sfugge ad ogni controllo, ad ogni logica umana, certamente fonte di prosperità economica, ma anche di tragedie, di distruzione, di morte, e quindi di paura.
Questa identificazione mi è sembrato che Britten l’abbia ben posta alla fine della prima scena del primo atto, quando Grimes, in vista di una tempesta particolarmente violenta, mentre tutti cercano rifugio nella Taverna del Cinghiale, si rifiuta di entrare. Egli vuole rimanere fuori, assieme alla tempesta, perché egli è la tempesta. Non dal punto di vista soggettivo, certo, ma oggettivamente. La tempesta è una forza della natura che può sconvolgere il tran tran della vita quotidiana. Grimes, con il suo modo ruvido, diretto, essenziale di comportarsi, che respinge i riti quotidiani, le ipocrisie della gente del Borough, e che tuttavia finisce per provocare la morte dei suoi apprendisti, è fonte di paura quanto la tempesta. Bisogna difendersi da lui, come bisogna difendersi dalla tempesta.
Non credo che sia necessario sottolineare la modernità, o addirittura l’attualità di un tema come questo.
Ciò che mi ha fortemente coinvolto è che, comunque, il giudizio di Britten sul Borough non è di tipo moralistico. Certo, le piccolezze, che sconfinano nelle cattiverie, del Borough sono impietosamente mostrate: si va alla santa messa, si ascoltano sermoni edificanti, ma si fanno circolare voci malevoli, il “gossip”, si organizza una battuta di linciaggio nello stile del film di Lang Fury o in quello di Wellman, The Ox-Bow Incident, oppure, in altre occasioni, si salta addosso alle nipotine trattandole, certo per quello che sono, due piccole prostitute, e che, per tale ragione, non hanno diritto alla dignità di persone umane.
Ma c’è anche una una sorta di comprensione (non di giustificazione) nei confronti del Borough. E questo appare soprattutto nella presenza dei due personaggi “positivi” dell’opera: Ellen (il sentimento) e Balstrode (la ragione). Entrambi si pongono il problema di Grimes, entrambi combattono il “gossip”, entrambi guardano a Grimes non come alla tempesta, ma come a un uomo che ha il suo patrimonio di idee, di sensibilità, di orgoglio. Tuttavia non si pongono apertamente contro la società. Ne capiscono le paure (soprattutto Balstrode), e cercano di combatterle con il ragionamento, con il richiamo ai valori di umanità, puntando sulla distinzione che deve esistere fra la paura della tempesta e quella che può essere la paura generata da un essere umano dal comportamento “anomalo”. Mentre monta l’atmosfera che porterà al tentativo di linciaggio, Balstrode canta ripetutamente “Quando iniziano i pettegolezzi nel paese, qualcuno ne soffrirà“. Ma quando, dopo la morte del secondo apprendista, essi si rendono conto che la paura del Borough nei confronti di Grimes diventa irreversibile, pur conoscendo l’innocenza di Grimes, sia pure con la consapevolezza di una sconfitta, invitano Grimes a sopprimersi andando al largo, nel mare, e a identificarsi, a fondersi con l’oggetto della paura della gente del Borough.
E questo mi sembra proprio l’elemento che caratterizza il Peter Grimes: le paure, il desiderio di stabilità, e alla fine lo spirito di conservazione che anima le società è un dato oggettivo, che, anche se è fonte di disumanità, di ipocrisie, di comportamenti moralmente censurabili, finisce per essere un dato di fatto altrettanto ineluttabile della tempesta. E non è certo dal moralismo che tali pulsioni possono essere vinte; se mai dal cercare di introdurre nella società i dubbi che ne fanno crescere la cultura.
È questo possibile? Il finale del Peter Grimes sembrerebbe dire di no. La morte di Grimes è un po’ come la cessazione della tempesta. Qualche cosa che non ha altra importanza se non quella che la vita può riprendere come prima. Ma questa conclusione è proprio solo pessimistica? Mi sembra che Britten preferisca lasciare le cose in sospeso. Ellen e Balstrode, le voci del sentimento e della ragione, sono ancora vivi, e come la vita quotidiana del Borough continua, continuano anche il sentimento e la ragione.
Quello che è straordinario in Britten, è che tutte queste cose trovano uno stupendo riscontro nella musica. Anzi, è proprio la musica che crea all’interno della nostra sensibilità, le riflessioni.
Anzitutto il mare. È sempre presente nelle note lunghe prolungate, ore nel grave ora nell’acuto: il senso di questa enorme presenza incombente, che, nel bene e nel male, è la vita del Borough. E sopra queste note, o questi accordi, il movimento: le onde, gli uccelli marini, l’agitarsi delle onde fino alla tempesta. Poi gli episodi di canto senza accompagnamento orchestrale. Secondo me essi assumono particolare importanza quando l’attenzione si sposta sulla soggettività di Grimes, e in particolare alla fine del prologo, nel duetto fra Grimes e Ellen, quando egli si rende conto del disprezzo che il Borough ha nei suoi confronti, e ne soffre, e vuole riguadagnare la fiducia; e alla fine dell’opera, quando si rende conto che tutto è perduto, nello stupefacente monologo che precede l’ingresso di Ellen e di Balstrode. Il monologo della pazzia o della sconfitta.
E infine il Borough, che si anima con una musica che risuona di volta in volta ironica (nella scene dei riti), sarcastica, quando il popolo inquadrato, al suono del tamburo, va alla capanna di Grimes (si avverte qui un ritmo di tipo militare che probabilmente ha le proprie radici nel dichiarato pacifismo di Britten), minacciosa, quando il gossip, tende ad ampliarsi e a montare l’insofferenza e la paura del Borough, triste quando si preannuncia la nuova tragedia (vedi ad esempio la stupenda passacaglia nell’interludio fra la prima e la seconda scena del secondo atto). Ma devo dire che tutti gli interludi creano una sorta di aspettativa per le vicende successive, e la musica che li anima è semplicemente stupenda.
Si tratta di una musica molto descrittiva, ma nel contempo che sa entrare e trasmettere gli stati d’animo: sia quelli collettivi, ma soprattutto quelli di Grimes e di Ellen. Se sia tonale, o atonale, e a quale tipo di atonalità risponda, non saprei dire. Non sono esperto di queste cose. Certamente l’uso della dissonanza è estensivo per ottenere gli effetti sonori che si devono sposare con le varie situazioni e stati d’animo.
L’esecuzione alla Scala. A me è piaciuta molto. L’orchestra ha esposto con chiarezza tutte le varie fasi dell’opera, dando il giusto risalto alle diverse circostanze, come più sopra ho cercato di descrivere. Io non ho ascoltato, come altri, quindici edizioni del Grimes: ho visto solo questa e ho ascoltato quella di Colin Davis registrata in diretta dal MET. Mi sono sembrate entrambe ottime, nel senso che entrambe hanno reso perfettamente comprensibile il discorso di Britten. In alcuni commenti espressi alla radio durante la diretta RAI della prima, ho sentito lamentare che Tate avrebbe enfatizzato troppo gli stati d’animo. Si parlava di direzione eccessivamente violenta. Può essere, non saprei dire, ma certamente non era un’esecuzione retorica. Il fatto importante, tuttavia, è che questi stati d’animo erano perfettamente leggibili, e privi di vere e proprie forzature. Insomma, posso dire che l’interpretazione di Tate mi ha aiutato molto a capire il messaggio del Grimes.
La regia. Correntemente si dice che la regia di Schlesinger, essendo sostanzialmente realistica, avrebbe violentato la musica fondamentalmente allusiva di Britten. Che fosse una regia con una cifra realistica, mi pare che non ci siano dubbi. Quello che invece non mi convince nelle critiche, è che essa, pur con una veste realistica, non sia stata altrettanto allusiva. Il Borough viene dipinto come esso è: le sue contraddizioni, le sue paure vengono descritte in modo esplicito, come potrebbero essere state descritte da un Dickens. Ma questo non toglie nulla, anzi, al discorso di Britten. Il Borough è sempre il vero protagonista, quello che interessa, è portato sulle scena senza intermediazioni. Anche la marcetta di quelli che vanno a linciare Grimes ha un che di grottesco che esprime bene il sarcasmo della musica.
Altre critiche si soffermano sul fatto che il mare non compare mai se non nell’ultimissima scena. Ma il mare c’è sempre. Schlesinger ha ritenuto di non rappresentarlo figurativamente. Secondo me non ha tolto nulla. Il mare è comunque presente nella musica, e non è difficile immaginarlo, o meglio, sentirlo, dietro alla casette traballanti del borgo, al molo, ai cordami, alle reti, agli alberi delle barche attraccate. Personalmente non ho avvertito la necessità di vederlo raffigurato sulla scena come un bel fondale dipinto di blu.
Il realismo figurativo, secondo me, non esclude per nulla, come in questo caso, gli aspetti allusivi contenuti nell’opera. Certamente, una regia più simbolista avrebbe dato un sapore di timbro diverso allo spettatore che guardasse l’opera. Ma non capisco perché si debba liquidare questa regia come estranea a Britten. Qualcuno dice che si è annoiato. Mi spiace per lui. Io non mi sono affatto annoiato, e sono stato coinvolto da una buona fusione della regia scenica con la “regia” orchestrale e musicale.
I cantanti-attori. Se dio vuole in opere come queste non ci sono cabalette, e cose simili, ma c’è la necessità di un canto che esprima i fatti scenici con i loro aspetti drammatici, grotteschi, ironici, melanconici etc., anche accompagnato da gestualità e movimenti adeguati. In questo il cast è stato all’altezza. Il loro canto ha espresso bene le situazioni sceniche, il loro muoversi sulla scena è stato naturale, con giuste sottolineature dell’ironia o del grottesco quando c’era bisogno. Magari volendo fare i pignoli, qualche sbavatura c’è stata: per esempio Boles, come predicatore e ubriacone mi ha convinto fin lì; Ned mi è sembrato avere l’aspetto più di un pescatore che di un farmacista; mentre più convincenti mi sono sembrate le figure di Auntie e soprattutto di Mrs. Sedley (ben raffigurata in una traballante cicciona, inesauribile fonte di pettegolezzi e cattiverie in nome di una falso moralismo codino), come anche quella di Swallow, inamidato fino al collo, con la voce e il tono dell’uomo di potere, espresso con amara ironia.
Fra i protagonisti, Langridge è stato favoloso: ha dato alla figura di Grimes quel senso di violenza continuamente contrastata dalla consapevolezza della sconfitta e dai presagi di morte. Stupendo il suo lungo monologo finale, senza accompagnamento dell’orchestra. Il rimorso, aspetto importante del suo canto, il regista l’ha voluto sottolineare con immagini del primo apprendista morto annegato. Ecco, forse questa è stata una soluzione pleonastica. Credo che se queste apparizioni non vi fossero state, il lavoro non avrebbe perso nulla. Come il mare, il rimorso dell’orgoglioso è nel canto e nella musica.
Anche Ellen e Balstrode hanno impersonato i loro ruoli in modo molto efficace, la prima esprimendo la dolcezza, la comprensione, la speranza anche davanti ai segni più evidenti della sconfitta; l’altro la calma della ragione, la consapevolezza di essere nel giusto, anche quando, alla fine del dramma invita Grimes all’autodistruzione.
Insomma, uno spettacolo che mi ha coinvolto ed emozionato, e che mi ha avvicinato ancora di più a Britten.