TAT’JANA, di Azio Corghi alla Scala

Prima di andare a vedere l’opera ho pensato bene di leggere il lavoro teatrale, in un atto, della giovinezza di Cechov. Pare che Cechov tutto sommato abbia rinnegato questo suo lavoro, ritenendolo più una cosa scherzosa che un lavoro di serio impegno. Ma, tutto sommato, i geni si riconoscono anche quando scherzano. E questo lavoro è estremamente interessante sotto l’aspetto drammaturgico.

Si tratta della descrizione di una cerimonia nuziale col rito ortodosso. Cechov copiò di pari passo la liturgia, che è il filo conduttore del dramma, attorniandola dal comportamento di una folla presente alla cerimonia, è che è distratta da mille fattori. Le persone chiacchierano ripetutamente fra loro delle cose più svariate, degli abiti che vengono indossati, del caldo, dell’afa opprimente, della noia che la lunga cerimonia provoca, degli sposi e della loro storia, etc. E si viene a sapere che lo sposo aveva da poco abbandonato la propria amante, Tat’jana Repina, una rinomate attrice di teatro, la quale per il dolore, la vergogna, non si sa, si è suicidata. Nel corso della cerimonia un ripetuto lamento femminile, mette in agitazione lo sposo che si immagina che esso provenga dalla sua ex amante, con conseguente trambusto generale. La cerimonia finalmente giunge al termine, e dopo l’uscita della gente, la donna, autrice del lamento, esce sulla scena e ai popi sbigottiti, con urla strazianti rivela di essersi avvelenata per odio contro lo sposo e per aver egli, abbandonandola, costretto al suicidio Tat’jana.

Cechov conclude il lavoro con un sorriso ironico, ponendovi alla fine la seguente didascalia “Sipario, e tutto il resto lo lascio alla fantasia di A.S. Suvorin”.

C’è da dire che Cechov scrisse questo lavoro come appendice scherzosa ad un dramma a fosche tinte dello stesso Suvorin, scrittore, ma anche editore del drammaturgo, che narrava la tragedia di Tat’jana Repina.

E infatti tutto il lavoro è pervaso da una sottile ironia: un divertente contrappunto fra una liturgia pomposa infarcita di preghiere a Dio affinché protegga questo e quello, e la folla che vi assiste, che non si immedesima mai nel rito religioso se non nella sua esteriorità. E molte della battute sono gustose, rivelando la vacuità dei personaggi. C’è da chiedersi – come appunto si chiede il sagrestano Kùzma – che cosa gliene importi a Dio di tutta questa pomposità, visto che alla gente non gliene frega niente.

L’aspetto drammaturgico di interesse, che qui viene sottolineato dai critici, è una sorta di anticipazione di quello che sarà la sua riforma teatrale: cioè un teatro senza protagonisti, senza “eroi” o “eroine”, ma fatto di situazioni e del rapporto fra la gente comune e queste situazioni.

Credo che questa premessa, sia indispensabile per poter capire il senso dell’opera di Corghi.

Anzitutto occorre riportare quella che è una notizia, a mio avviso molto interessante, sulla genesi dell’opera. Infatti il suggerimento a comporre un’opera a partire da questo lavoro di Cechov gli è venuto dal regista Peter Stein, che poi è anche il regista della messa in scena. Peter Stein è principalmente un regista di teatro, ma si vanta di avere lavorato anche come regista di opere, e, apprendiamo, è anche un buon musicista, che legge le partiture, suona il violino, etc.

Affrontare la composizione di un’opera con queste premesse, senza una “trama”, era certo una sfida, che Corghi, dopo qualche esitazione ha accettato, probabilmente anche con i consigli dello stesso regista.

Corghi stesso ha scritto il libretto rispettando moltissimo l’impianto drammaturgico di Cechov, e facendo solo qualche piccola modificazione.

La struttura dell’opera è su più piani: da una parte il piano della recitazione della liturgia nuziale ortodossa, lasciata integra, e arricchita da due cori: uno, chiamato il coro della cattedrale, è un coro registrato su nastro e trattato elettronicamente; l’altro, chiamato il coro del Vescovado, è il coro della Scala, dietro le quinte.

Dall’altra, il piano della folla che chiacchiera; questa parte è cantata e accompagnata da un’orchestra d’archi e percussioni. In questo piano si inserisce il lamento della donna (velata di nero) amplificato da stupendi interventi degli Swingler Singers, che fanno riferimento all’agnello sacrificale.

Un terzo piano è il vociare di folla all’esterno della chiesa, che contesta duramente lo sposo, a causa della sua responsabilità nel suicidio di Tat’jana.

I tre piani sono anche scenicamente distinti: a sinistra, sull’altare, il piano liturgico; al centro, nel corpo della chiesa, il piano dei presenti; sulla destra, fuori dalla chiesa, il piano dei contestatori.

Tutta l’opera è racchiusa da quello che qualche critico ha voluto chiamare “un paio di virgolette”. All’inizio (preludio) e alla fine (morte della donna velata di nero) c’è un intervento di uno strumento insolito, un flauto contrabbasso, che di fatto domina la scena.

Il flauto: emette una suono estremamente basso che spesso sfocia in veri e propri sospiri ed ha una distribuzione spaziale attraverso diffusori disseminati un po’ dovunque nel teatro. Ci introduce in un’atmosfera claustrofobica, che è quella di una chiesa ortodossa, angusta, affollata, ripiena di icone, illuminata dalla luce calda ma “afosa” delle candele. La scena immaginata da Stein è bellissima e realmente produce nello spettatore questo senso di claustrofobia, richiamato dalla musica, e successivamente dallo svolgimento del dramma.

Dal preludio, per entrare nel piano della recitazione liturgica, si passa ad un intervento del coro attraverso uno straordinario effetto di vortice sonoro che sfocia in “Amen”; e subito dopo il coro (del Vescovado) canta un bellissimo frammento della Liturgia di San Giovanni Crisostomo composta da Čajkovskij. Questo è un altro aspetto dell’opera che vale la pena di sottolineare. Il compositore effettua dei veri e propri “collage” introducendo nel corso della liturgia frammenti bellissimi di questa composizione čajkovkjana che, in un’ambientazione visiva e sonora decisamente nevrotica, rappresentano un momento di calma, di raccoglimento, di religiosità autentica.

Ben differente è invece l’intervento del coro della Cattedrale, che si limita a ripetute giaculatorie, ripetitive anche nella musica (“Signore, pietà!”, oppure “Amen”), che si inseriscono invece nell’atmosfera nevrotica, rendendola ancora più ossessiva.

Il piano della folla: è cantato, con frammenti musicali brevi, convulsi, spezzettati, che accompagnano il continuo movimento, anche fisico sulla scena, delle persone. L’orchestra è rappresentata da soli archi e percussioni (compresi due pianoforti); mancano del tutto i fiati. Dice Stein, in una intervista, che questa componente del movimento l’ha ritenuta necessaria per evitare la staticità di una situazione che non ha una trama, uno sviluppo e una conclusione cui arrivare. Qui la drammaturgia è messa in evidenza attraverso questa nevrosi continua, questo continuo ondeggiare, rimbalzare di voci e di piccole frasi musicali, che ricade periodicamente sul lamento della donna, che assume l’aspetto di una sospensione misteriosa. Gli Swingler (chiamati anche coro invisibile) qui danno, con lo stranissimo timbro delle loro voci, veramente questa sensazione di sospensione dell’azione (se così si può chiamare). Ho trovato questi loro interventi veramente stupendi. A questo stesso piano, anche se in una dimensione diversa, appartengono le grida che ogni tanto si sentono, della folla ammassata al di fuori della chiesa.

Il finale si discosta da quello di Cechov, nel senso che le riflessioni sulla vacuità dei riti religiosi del sagrestano Kuz’ma vengono concentrate tutte alla fine, dopo l’uscita della gente dalla chiesa, nel canto di un basso profondo, che dice Corghi, è l’unico intervento solista che può richiamare un’aria (qualcuno, forzando un po’ il significato delle parole, lo ha definito un “basso verdiano”). La cosa interessante è che questo intervento è accompagnato dall’orchestra d’archi in modo tonale, e punteggiato dai mugolii di un personaggio che Corghi ha introdotto, una specie di inserviente del sagrestano, sordo-muto. Questi mugolii anticipano il secondo intervento del flauto contrabbasso.

Il finale, a differenza di Cechov, nel quale il dramma della donna velata di nero è temperato dall’ironia della didascalia di chiusura, qui viene portato alle estreme conseguenze, con un intervento drammatico del soprano che si addentra in una atroce agonia, e dei due popi che davanti a quello spettacolo inorridiscono, non per la donna, ma per l’insulto alla religione che le sua frasi deliranti provocherebbero. Questa fase è ancora accompagnata dal flauto contrabbasso che in tal modo, diciamo, chiude le “virgolette” aperte all’inizio.

Lo spettacolo è stato interessante. La regia molto bella, molto esplicita e significativa. Il lavoro riesce a riprodurre molto bene l’atmosfera presenta nel dramma di Cechov. L’unico appunto, che pure è stato fatto anche da altri critici, è che in questa forma di presenza contemporanea della parte cantata dei presenti e della parte recitata della liturgia, sfugge il significato ironico delle parole di Cechov, e, tutto sommato, anche la stessa musica, impegnata per lo più ad realizzare l’atmosfera nevrotica e claustrofobica, finisce di non sottolineare abbastanza questo aspetto ironico, che in Cechov è molto importante.

L’ironia potrebbe nascere da una considerazione che mi è venuta in mente: in realtà nell’opera non sembra tanto che il chiacchiericcio della gente disturbi la liturgia, quanto in realtà sia la liturgia a disturbare il chiacchiericcio della gente. Come dire: la vita di tutti i giorni, per quanto insulsa possa essere, finisce per essere disturbata da una politica che con la vita non ha nulla a che fare.

Comunque, quello che ha mio avviso è interessante, è che siamo di fronte ad una drammaturgia, certo non tradizionale, ma non per questo meno efficace.

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