IL TROVATORE, alla Scala
Finalmente ho potuto vedere Il trovatore scaligero, dopo aver letto tanti post, aver assistito a tante polemiche di varia natura che riguardavano la scelta se fare o non fare il famoso “do”, i tempi, la direzione di Muti, le voci… e chi più ne ha più ne metta. E dopo aver scritto un post su un’opera diametralmente opposta come l’Anacreon, ora provo a dire anch’io la mia sul Trovatore scaligero. Ma come è mio costume cercherò di non esprimere giudizi analitici sull’esecuzione (anche perché non me ne sentirei in grado), ma di partire da una valutazione di tipo drammaturgico.
E dico subito che l’impianto generale, registico e musicale, mi ha convinto che il personaggio chiave del Trovatore sia Azucena. E’ vero che dal punto di vista dell’impegno interpretativo gli altri tre personaggi sono altrettanto se non più importanti. Ma il dramma regge tutto su questa figura centrale: potrei dire che Il trovatore è il dramma della vendetta sublimata. Mi è venuta alla mente un’altra opera, che ha un taglio drammaturgico simile (anche se la realizzazione è molto differente, e direi molto più complessa), ed è La Juive di Halevy. In questa opera il personaggio centrale è Eleazar, e anche in essa tutto il piano drammaturgico converge su una vendetta che ha caratteristiche quasi identiche a quella del Trovatore: in entrambi i casi essa è compiuta dai due personaggi chiave attraverso la morte della persona da loro più amata e la propria morte; ma determina nell’oggetto della vendetta un dolore più grande della perdita della vita stessa. Una vendetta quindi che, sia pure a prezzi incommensurabili, colpisce l’oggetto non fisicamente, ma negli affetti, nel sentimento, e che si dimostra essere infinitamente più atroce di qualsiasi altra punizione. Questo filone narrativo centrale si sviluppa su un terreno di passioni umane, possibili o impossibili, che nel Trovatore, ma anche nella Juive, sono il terreno necessario affinché la vendetta si compia ed abbia il senso tragico che sappiamo.
Il libretto del Trovatore è da punto di vista letterario e
drammaturgico piuttosto scadente, ma la musica di Verdi, ne sa estrarre
gli aspetti decisivi, e sa metterli in evidenza con straordinaria
efficacia. E, tanto per riferirci allo spettacolo scaligero, regia e
direzione d’orchestra hanno saputo cogliere molto bene questo aspetto,
la genialità verdiana.
La scenografia di Da Ana è una scenografia rozza, quanto è rozzo lo
sviluppo musicale dell’opera, che di fatto assegna all’orchestra solo un
ruolo di accompagnamento, mentre attribuisce alla voci tutto il peso
dell’espressione. Ambienti cupi, tetri, costituiti da forme
architettoniche appena accennate, soprattutto colonne ritorte, rozzi
muraglioni, che richiamano l’architettura gotica, e che, spostandosi a
vista e prendendo diversi reciproci rapporti, con l’aggiunta di pochi
altri elementi, disegnano le scene. E’ l’espressione visiva della famosa
”tinta” verdiana. De Ana ha una grande sensibilità visuale, e le sue
realizzazioni sono dal punto di vista dell’immagine, molto raffinate
(anche se questa può sembrare una contraddizione con la rozzezza
dell’ambiente descritto). E la sensibilità visuale di De Ana, secondo
me raggiunge l’apice, anche dal punto di vista drammaturgico, all’inizio
della Seconda parte, col coro degli zingari. La scena richiama da vicino
un quadro che potrebbe essere di Goya. Nei colori prevale un ocra
aranciato, reso mosso dai policromi costumi. Il coro degli zingari, dopo
l’inizio, si ammassa tutto sulla parte destra del palcoscenico, assume
una immobilità completa, con posture differenti delle singole persone,
mentre sulla sinistra da sola appare la figura di Azucena, che canta
”Stride la vampa“. Quest’aria non è un racconto, ma una visione, un
sogno, un viaggio della mente allucinata della zingara a tempi lontani,
quando si è consumato il dramma terribile che conosciamo. La stessa
aria ha un andamento allucinato, efficacissimo (per me è stupenda!).
Ecco, de Ana con questo colpo di teatro, o di regia, se vogliamo, ha
dato il segno della chiave drammaturgica. Azucena e là, sola, unico
personaggio a muoversi in un quadro si assoluta immobilità. E questa
presentazione viene fortemente ripetuta proprio nell’ultimissima scena,
quando ella, quasi coperta dagli ultimi accordi orchestrali, pronuncia
la frase conclusiva “Sei vendicata o madre!“. La sua persona riempie il
palcoscenico, tutto passa in secondo piano, e la zingara viene
illuminata da una luce livida, e non (come spesso accade) dalle becere
”fiamme” che dovrebbero simulare il rogo. Non è tanto l’orrore del rogo
il punto cruciale dell’opera e della sua conclusione, ma la vendetta, ai
prezzi che sappiamo.
L’unico appunto a questa regia, che non mi vede completamente d’accordo,
è la scelta di simboleggiare la torre della prigione nell’ultima parte
con una ammasso, un grande cumulo di armi (?), o di corpi di soldati
morti (come a me è sembrato) nelle posture più macabre; ciò mi
ricorda le scene che si vedono nel Macbeth durante il preludio, nel film
da lui diretto. E’ un gusto dell’orrido, del macabro che trovo
eccessivo, e soprattutto senza una chiara necessità drammaturgica.
Il personaggio di Manrico. De Ana e Muti non ne fanno un eroe, ma un
personaggio dolce, completamente avvinto da due affetti: quello per la
madre, e l’amore per Leonora. E’ un trovatore, un poeta, un cantante,
non un guerriero. Certo, è in guerra, ma questo è sullo sfondo, non
l’aspetto principale. E direi che Muti ha saputo cogliere molto bene
questa sua caratteristica. Il suo canto non è mai eroico, ma sempre
appassionato. La stessa aria, che tradizionalmente gli viene imposta
come un vestito eroico e guerriero, “Di quella pira“, non è un canto di
guerra, ma un canto di intensissima emozione, di orrore, di dolore, di
rabbia: gli stanno bruciando la madre! L’animo del poeta, che ha cantato
”Deserto sulla terra, col rio destino in guerra“, o, un attimo prima
”Amor… sublime amore” ora è sconvolto e canta “Era già figlio prima
d’amarti… Madre infelice, corro a salvarti“. C’è proprio da chiederci
come la conclusione dell’aria sul “do” possa essere coerente con questa
impostazione! E De Ana ha seguito l’impostazione di Muti, facendogli
cantare l’aria (finalmente!!!) senza la spada in pugno. Licitra, secondo
me, ha una bella voce, un tono appassionato nel cantare, ma forse non ha
saputo delineare fino in fondo questo carattere molto bello di Manrico;
e anche con le movenze sceniche (per la verità piuttosto infelici),
tendeva più a risolverne l’aspetto eroico, che non l’aspetto
appassionato. Comunque a me il messaggio è giunto chiaro e forte.
C’è da dire che, nel dirigere le movenze, De Ana mi è piaciuto
moltissimo. In tutta la quinta scena, il rapporto di Manrico con Leonora
è trattato in modo dolcissimo. L’intenso e tenero amore fra i due (a
differenza di quello del Conte che è un amore violento) è reso dalle
movenze di lei, assolutamente studiate e precise, che esprimono affetto,
tenerezza, com-passione per il dolore di Manrico alla notizia orribile,
e che proseguiranno quasi senza soluzione di continuità all’inizio
della quarta scena, dove tutta l’assurdità della situazione trova
proprio una giustificazione in ciò che si è manifestato nella scena
precedente.
Il controllo delle movenze De Ana lo ha esteso praticamente a tutta
l’opera, ed è apparso notevole, soprattutto nel dirigere i movimenti
delle masse corali, che si spostavano, eseguivano movimenti sempre con
l’intento di creare figure sceniche accuratamente studiate e di
bellissimo effetto.
Leonora è un personaggio dolce e impaurito (già l’errore di persona
che commette nella quarta scena della prima parte ne delinea il
carattere). Leonora ha due momenti cruciali nell’opera: la seconda scena
della prima parte, e tutta la quarta parte. L’aspetto tenero, dolce,
innamorato, finisce alla fine per far prevalere in lei la decisione più
istintiva ma anche meno efficace: salvare il proprio amore al prezzo
della propria vita. Sappiamo come va a finire. E il canto di Leonora ci
rivela proprio questo personaggio.
Il Conte di Luna nutre per Leonora una passione violenta, ben lontano
dal sentimento delicato che lega Manrico e la donna. Ed è tuttavia un
sentimento così intenso da fargli rinunciare alla vendetta pur di
poterlo soddisfare. Qui ritorna il tema della vendetta, ma in chiave
speculare rispetto ad Azucena: questa sacrifica tutto, proprio tutto, se
stessa, l’unico grande amore per cui ha vissuto, il figlio (non-figlio),
alla vendetta; il Conte sacrifica la vendetta alla propria passione e
libera Manrico, l’oggetto sul quale vuole vendicare il supposto delitto
di Azucena, la supposta morte del fratello. Il canto del Conte di Luna
è sempre un canto cupo, mai addolcito, mai sorridente. E’ un uomo a una
sola dimensione, truce guerriero.
Ed è da notare tuttavia come De Ana abbia concesso aspetti guerreschi
solo all’inzio della Terza parte, quando l’esercito del conte è
schierato per dare l’ultimo assalto al castello di Castellor. E’ l’unica
occasione nella quale la guerra viene portata in primo piano, ed è
l’unica occasione in cui De Ana vi fa riferimento. Non voglio fare
confronti con altre (celebri) esecuzioni da me viste in video, in cui
armature, spade, guerrieri, sono disseminati un pò dovunque per tutta
l’opera, a partire dalla prima scena, rischiando quindi di diluire
l’intensità dell’intreccio drammaturgico.
Il coro. Potrebbe essere il quinto protagonista, tanti sono i suoi
interventi, che a mio avviso, dal punto di vista drammaturgico, hanno
l’importante funzione di mantenere la tinta cupa, fosca dell’opera, e
musicalmente può essere considerato la piattaforma, il terreno sopra il
quale la vicenda sembra poggiare.
L’orchestra. L’orchestra, secondo me, nel Trovatore ha un ruolo
subordinato al canto. Nella maggior parte dei casi ha una funzione di
accompagnamento, o al massimo di sottolineatura. In alcuni casi
raggiunge una certa efficacia espressiva (per esempio, gli archi bassi
quando Ferrando evoca la scena del fantasma della zingara bruciata sul
rogo, oppure l’andamento di un ritmo quasi singhiozzante che accompagna
il canto di Leonora, rivelandone l’intima agitazione, quando ella si è
resa conto dell’errore di persona a cui è stata tratta dall’oscurità,
e cerca, nella quinta scena, di spiegarlo a Manrico).
Con un solo personaggio l’orchestra assume un ruolo espressivo ben
preciso e molto efficace. E, manco a dirlo, si tratta di Azucena. Il
racconto che ella fa a Manrico “Condotta ell’era in ceppi” ha un
accompagnamento semplicissimo, ostinato, di due note acute (oboe e
violini) che è un terribile lamento, un singhiozzo interiore che
esprime in modo magistrale l’emozione della zingara al ricordo.
Semplicissimo e geniale. Altre occasioni di intervento eloquente
dell’orchestra si hanno nel corso del racconto della zingara “Quand’ecco
agli egri spiriti” e nell’ultimo suo duetto con Manrico in prigione.
Quando ella, piena di terrore, evoca il rogo, l’orchestra accompagna
questo stato d’animo col riprendere la linea dell’aria “Stride la
vampa“, affidata soprattutto ai violini, con grande efficacia
descrittiva del tumulto dei sentimenti che agitano Azucena.
Ma Il trovatore è un’opera bella? Secondo me sì, molto bella, e lo
dico anche se le mie preferenze in genere vanno alle opere nelle quali
l’orchestra ha un ruolo determinante, e non solo quello di
accompagnamento. In questo caso tuttavia il canto ha una tale forza
espressiva, un tal vigore, una tale capacità di “rapire” l’attenzione,
di commuovere la sensibilità che l’effetto drammaturgico è comunque
assicurato. E in questo gioca, penso, anche una unitarietà di stile
veramente straordinaria. Io sono del parere che l’esecuzione scaligera
abbia avuto proprio questo merito: di aver saputo fare emergere una
drammaturgia che, proprio per la sua stessa natura, e le natura del
canto che vi svolge un ruolo fondamentale, è a rischio di essere
travolta o quanto meno trascurata, proprio come purtroppo credo che
succeda spesso.
30 novembre 2013 alle 12:26
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