SAMSON ET DALIDA, al teatro degli Arcimboldi

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La cosa curiosa è che quando chiedevo a qualche conoscente se gli era 
piaciuto (lo spettacolo, intendevo), invariabilmente ottenevo una 
risposta in merito al Teatro. Perché questo sembrava essere l’interesse 
principale. La cosa può essere spiegabile. Si trattava di abbonati del 
turno C che si sono visti scippare la Traviata e poi il balletto, ed era 
la prima volta che mettevano piede agli Arcimboldi.

Per la verità molti hanno arricciato il naso. La critica più frequente 
era la freddezza, o il fatto che richiamasse, che so, una stazione 
ferroviaria, o un emporio… 
A me è piaciuto. Non mi è sembrato un ambiente freddo, nei limiti di 
quello che può essere un’architettura moderna. Per apprezzarlo, 
comunque credo che occorra togliersi dagli occhi il teatro del 
Piermarini, cosa che, mi rendo conto, è piuttosto difficile.

Tuttavia lo spettacolo è stato accolto con entusiasmo: più dopo il 
secondo e il terzo atto, che dopo il primo. 
Io ho ancora verificato di persona come l’ascolto radiofonico dia solo 
una idea molto parziale dell’opera. Il poter vedere l’azione scenica mi ha chiarito diverse cose che nell’ascolto radiofonico erano rimaste nel 
limbo delle incertezze (oh, non che incertezze non ne siano rimate. 
Anzi.).

L’opera anche in questa occasione mi è sembrata piuttosto strana. Ho 
avvertito una dissociazione fra interesse musicale e interesse 
drammaturgico. Ovvero la musica mi ha suscitato splendide emozioni, ma 
queste emozioni non erano legate al mio coinvolgimento nella vicenda. Le 
sofferenze (erotiche ed umane) di Sansone, le ire del Grande sacerdote, 
l’astuzia e le capacità seduttrici di Dalila, non mi hanno creato quel 
senso di immedesimazione con i personaggi che in genere nelle opere 
avverto. 
Quello che dominava era la musica in sé, la bellezza dei cori, le arie 
di Dalila, il colori orchestrali, sempre cangianti, dalla cupezza degli 
archi bassi in certe entrate, fino alla petulanza dei legni alti, passando attraverso varie gradazioni; e poi le linee melodiche tortuose 
e seducenti delle arie di Dalila…  Una musica molto bella, di grande 
eleganza, che tiene desto l’interesse, che a tratti crea vera emozione, 
con l’unica eccezione del baccanale, che potrei definire un pezzo di 
bravura, ma tutto sommato abbastanza scontato.

Il fatto drammaturgico, invece, non mi ha coinvolto. E direi che la 
messa in scena di De Ana abbia contribuito non poco. L’impostazione mi 
è parsa molto ricca di idee e in alcuni tratti anche visivamente molto 
bella, ma anche, in certi momenti, fredda e scostante. Penso che la vicenda di Sansone non possa non avere richiamato il regista all’attualità e alle vicende medio-orientali. E diversi sono i 
segnali di questo. 
Già solo la disposizione del coro al sollevamento del sipario. Corpi 
distesi a terra di persone macilente, vestite di stracci, mescolate a 
frammenti di automobili, pezzi di carrozzeria, marmitte: tutto questo fa 
pensare ad un popolo sofferente una dominazione straniera. Allora erano 
gli ebrei; oggi sono i palestinesi dei campi profughi. Ma nulla di nuovo 
sotto il sole. E per dare un tono di orrore in più De Ana è ricorso 
alle immagini di Bacon: riflessi luminosi di color livido mostravano 
volti spettrali, bocche spalancate, grida di dolore mute, che si 
legavano molto bene col tema ostinato che introduce l’opera e che 
accompagna tutta la parte iniziale del coro. 
Un altro punto interessante della messa in scena, sono le luci puntiformi che tappezzano in continuazione il secondo quadro dell’ultimo 
atto, riferimento evidente alla cecità di Santone: ad esempio, l’apertura 
del quadro, con una piccola processione di sacerdotesse che portano 
sulle spalle un figura di uomo magro, bianco, quasi rattrappito, circondato da piccole candele illuminate (altro riferimento alla pittura 
di Francis Bacon). Anche lo sfondo fatto di gabbie non mi è 
dispiaciuto, simbolo di prigionia, di libertà negata. Molto meno 
efficace mi è sembrato, invece, quella specie di paravento che nel secondo atto dovrebbe rappresentare l’abitazione di Dalila; oppure quel drappo rosso che dovrebbe rappresentare la catena erotica che imprigiona Sansone; oppure il balletto del baccanale, piuttosto bruttino, con i 
bidoni di petrolio (altro simbolo che richiama l’attualità) che venivano passati di mano in mano; oppure la luce finale al posto del 
crollo delle colonne. Quest’ultima idea potrebbe anche essere buona, se, nel controluce non si vedessero i corpi dei filistei che si agitavano per simboleggiare la catastrofe, e che invece attenuavano l’impatto forte della accecante luce improvvisa che, secondo me, avrebbe dovuto 
essere il simbolo unico della catastrofe finale, con la scomparsa, nell’accecamento dello spettatore, di ogni corpo o oggetto sulla scena. 
Ovviamente questa è una mia idea personale.

La direzione orchestrale è stata, a mio avviso, splendida per chiarezza. resa dei colori, eloquenza delle melodie, con i chiari 
richiami tematici di cui l’opera abbonda (per esempio, il tema della 
seduzione, o il tema guerriero delle rivincita degli ebrei che risuonano 
in opportuni punti dell’opera). Insomma il suono orchestrale mi ha 
comunicato con grande sensibilità l’eleganza di questa musica. Per 
esempio, il tema ostinato, lamentoso che accompagna il coro nella prima 
parte, pur sentendosi distintamente non ha mai soffocato le voci. In 
altri punti, come nella terza aria di Dalila, dove l’orchestra fa una 
specie di contrappunto o di alternanza alla voce, lo fa in modo da 
esaltare il canto e la sua sensualità. Anche il temporale ha reso molto 
bene il senso di attesa che porterà alla sconfitta di Sansone caduto 
nella trappola della maliarda. 
Di esempi se ne potrebbero fare moltissimi, ma quello che importa è la 
resa complessiva: una lettura chiara, che mette in rilievo le 
preziosità di questa musica affascinante.

Fra i cantanti mi hanno impressionato sia l’eterna giovinezza di 
Domingo, che ha sfoderato una bella voce, chiara, potente, drammatica, sia 
la voce bellissima, sensuale, calda, della Borodina. Qualche critico ha 
lamentato che la Borodina, come mezzosoprano, ha una perdita di penetrazione nei registri più bassi. Può anche essere vero (dal vivo si avverte molto di più che all’ascolto radiofonico), ma tutto sommato 
questo non mi ha disturbato più di tanto, né diminuito la mia 
ammirazione e il fascino che questo canto ha provocato su di me. A questo proposito va pure detto qualche cosa sull’acustica del teatro. 
Quello che ho notato, anzitutto, è che le voci provenienti dal 
palcoscenico penetrano in sala molto meglio che non alla Scala. Non vi 
sono quelle sensazioni di “sordità” che spesso alla Scala si 
avvertivano. E anche il rapporto voci-orchestra è molto migliore, visto 
che i piani sonori qui si distinguono molto bene (cosa che non sempre 
avveniva alla Scala).

Gli applausi del pubblico, abbastanza tiepidi alla fine del primo atto, 
sono diventate vere e proprie ovazioni alla fine degli atti successivi. 

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