LES TROYENS, al Teatro Comunale di Firenze
È la seconda volta che vedo quest’opera. La prima volta è stato alla Scala nel 1996. Sul podio c’era Colin Davis, la regia era di Luca Ronconi. In questa occasione del Maggio, il direttore era Zubin Metha, e la regia era di Graham Vick. Le due interpretazioni si ispirano a criteri che oserei definire diametralmente opposti, e il loro confronto, a mio avviso, mette in evidenza certe contraddizioni di cui, secondo me, quest’opera soffre: vale a dire contrasti, anche stridenti, fra momenti di grande pomposità e episodi di infinita dolcezza, tenerezza, malinconia; o anche contrasti fra lungaggini e prolissità di alcune scene, e momenti invece di vera forza interiore.
Queste prolissità tradizionalmente fanno ritenere quest’opera “troppo lunga” (Berlioz stesso soppresse la scena di Sinone – circa 5 minuti di musica nel primo atto – per rispondere alle critiche di eccessiva lunghezza). In realtà se prendiamo in considerazione la durata della musica, essa è appena inferiore alle quattro ore, cioè ha una durata non superiore a quella del Tristano. Ma c’è una differenza sostanziale: nei Troyens si richiedono numerosi cambiamenti di scena, e questo, unito ad alcune vere prolissità, determina una sensazione psicologica di eccessiva lunghezza.
Nonostante questo tuttavia devo dire che quest’opera mi affascina, e mi riporta a quel mondo classico che tanto adoro, sia quello dei poemi omerici e, in questo caso ancora di più, quello del poema virgiliano.
Da un punto di vista drammaturgico l’opera è intesa come un tutt’uno; tuttavia occorre rilevare che le due parti di cui si compone (primo e secondo atto, dal sottotitolo “La presa di Troia”; e terzo, quarto e quinto atto, dal sottotitolo “I troiani a Cartagine) sono abbastanza definite in sé, tanto da poter essere rappresentate separatamente. Anzi, sappiamo che Berlioz non assistette mai all’opera nella sua interezza, e potè vedere solo la seconda parte rappresentata. Comunque Berlioz stesso, sia pure obtorto collo, accettò questa separazione, componendo un preludio orchestrale all’atto terzo (che in questa edizione non è stato eseguito).
A Firenze si è scelto un compromesso: si è rappresentata La presa di Troia al pomeriggio e I troiani a Cartagine la sera. I maligni hanno attribuito questa scelta non tanto a un criterio di natura interpretativa, quanto ad un criterio più banalmente economico: per assistere alla due parti occorreva acquistare due biglietti…
Che le due parti siano abbastanza autonome, è vero. Ma è anche vero che la prima parte, che si conclude con l’incendio della città, il suicidio collettivo di Cassandra e delle altre donne troiane, e la fuga di Enea, lascia il discorso in sospeso. Si ha la sensazione che questa parte di fatto sia il prologo (o l’antefatto) a qualche cosa d’altro (che è appunto la seconda parte). E anche la seconda parte, di per sé sembra rendere necessaria una premessa. Questo mi ha fatto pensare alla struttura della tetralogia wagneriana: unitaria nella sua concezione, ma costituita da opere che possono anche reggere da sole.
Come nella Tetralogia, il collegamento fra le due parti viene realizzato musicalmente mediante l’impiego di alcuni motivi (azzardato chiamarli leitmotiv) che sono comuni: la marcia troiana, l’invocazione “Italie”, e poco altro.
Ho detto che le due regie, quella di Ronconi alla Scala e quella di Vick a Firenze, confrontate, mi hanno permesso di rilevare alcune contraddizioni insite nell’opera.
La regia di Ronconi ha messo in evidenza soprattutto l’epos, mediante una scenografia grandiosa, costumi sontuosi, insomma, tutto ciò che la fantasia può immaginare essere il mondo antico popolato di eroi, di re, di riti, di celebrazioni. Figurativamente era molto bella
La regia di Vick si è spostata tutta sul versante opposto: da una parte Vick non ha rinunciato al simbolismo: quindi scene molto scarne con al centro una struttura di forte significato simbolico:
nel primo atto un arco romano rovinato a terra e semisepolto (qui il richiamo alla regia di Kupfer del Penthesilea, dove la scena era costituita dalla enorme statua semisepolta di un guerriero, mi sembra doveroso) simbolo di eventi grandiosi e distruttivi;
nel secondo atto il simbolo della distruzione va oltre: l’arco si apre come un libro e mostra una lunga teoria di tombe scoperte, con visibile il corpo defunto, al centro delle quali si mette in evidenza la tomba di Ettore, che si illumina e si ricopre di sangue durante il canto dell’ombra dell’eroe troiano che incita Enea a fuggire e a fondare in Italia una nuova Cartagine.
I costumi dei guerrieri troiani sono costumi militari anonimi (assomigliano un po’ ai costumi delle truppe coloniali francesi); quelli dei guerrieri greci di colore più scuro, ma anch’essi del tutto anonimi. I costumi delle donne sono semplici veli neri, quelli di Ecuba e di altri componenti la famiglia reale, sono grottescamente sontuosi, tipo corte sette-ottocentesca.
Già in questo primo atto si vede, secondo me, l’impegno dissacrante di Vick per la pompa, la sontuosità con la quale Berlioz descrive le scene centrali (il corteo di Priamo, il balletto dei “cesti”, il corteo con il quale il cavallo viene fatto entrare nelle mura della città). Vick disegna delle scene grottesche: Ecuba, vestita in modo kitch, che cammina a stento sorretta goffamente, Priamo nelle vesti di un imperatore dell’Ottocento, ma con un aspetto di vecchio arteriosclerotico ingobbito e tremante, e così gli altri personaggi di una corte macilenta e decadente; tutto ciò in contrasto con la sontuosità della musica che accompagna la scena. Anche il balletto del pugilato: coreografia brutta, movenze caricaturali, brutte a vedersi. Eppure ad un certo momento, improvvisamente, musica e coreografia del balletto si interrompono, e la scena assume una immobilità irreale, mentre inizia il coro “Andromaque et son fils” e lentamente, avvolta in neri veli entra la vedova di Ettore con Astianatte. V’è una palese, forte emozione nella musica che l’immobilità della scena rende ancora più percepibile, ancor più nello stupendo assolo di clarinetto che segue il coro e accompagna la scena fino alla fine. Qualcuno ha criticato il fatto che ad un certo punto Andromaca, dalla iniziale ieraticità, sia passata ad una forma di espressione di dolore più gridato; ma a me è sembrato questo un modo per arrivare poi al commuovente muto abbraccio fra Astianatte e la madre, mentre l’assolo di clarinetto si dissolve nel nulla.
Anche la scena del corteo che accompagna il cavallo dentro le mura, con la marcia troiana – marcia molto bella, trascinante – viene realizzata da Vick in termini antiretorici al massimo. Sulla scena rimane solo Cassandra, con le sue predizioni, la sua disperazione, mentre corteo, cavallo e coro sono fuori scena. Al contrario, in Ronconi la scena aveva una grande sontuosità, ed era dominata dalla gigantesca figura del cavallo, che transitava lentamente sul fondo. Due modi opposti di intendere l’epos.
Descrivere dettagliatamente le scene e quella che, secondo me, rappresenta l’interpretazione che Vick ha dato alla seconda parte dell’opera, sarebbe lungo e noioso. Per cui mi limito ad alcuni fatti che ritengo più significativi.
La pompa di Cartagine, viene interpretata da Vick ancora in termini grotteschi. Il popolo cartaginese e la sua stessa regina vestono tutti un semplice costume giallo, e movenze, spostamenti etc., tendono a riprodurre in modo caricaturale la società cinese. Anche la scena è elementare: un piccola piattaforma, due muri di edifici in costruzione che si contrappongono, sullo sfondo le vette di montagne e un cielo azzurro. I colori sono molto contrastati. Anche in questo atto balletti, coreografie, movenze sceniche sono brutte, stridenti. Tutto l’atto è percorso da una musica di tipo celebrativo, compreso l’inno nazionale cartaginese (che viene cantato dal coro con la mano sul cuoricino, all’americana!)
Le cose cambiano nel IV atto. Molto brutta la scenografia e la coreografia della caccia reale e temporale: una piccola isola verde, circondata dal blu del mare e del cielo. Qualche arbusto, due grandi calle ai lati del boccascena. Colori vivacissimi e freddi, quasi acrilici. Brutta coreografia di ninfe e fauni, nessun accenno alla caccia, né a Didone ed Enea. Si passa così al secondo quadro del IV atto, dove l’isola si configura come un luogo marino di vacanza borghese: due sedie-sdraio, personaggi che vanno avanti indietro, fanciulle e giovani che si rincorrono, i balletti (con la solita bruttissima coreografia), il canto di Iopa, Didone, molto irrequieta che non sa dove stare, il quintetto dove Ascanio ruba a Didone l’anello di Sicheo, e infine il settimino. Qui musica e scena entrano gradualmente nel mondo degli affetti, e la regia di Vick, così dissacrante fino a quel momento, entra in un momento di grande commozione. Le luci si attenuano nel crepuscolo della sera, i colori perdono la loro sfacciata vivacità, i sette personaggi del settimino si distribuiscono, quasi in ordine geometrico, sulla scena e rimangono in piedi, immobili: inizia quel brano incredibile che è il settimino con coro “Tout n’est que paix et charme autour de nous”, una musica e un canto dolcissimi, che rapiscono lo spettatore. Si arriva così al lungo duetto d’amore “Nuit d’ivresse et d’extase infinie”, mentre la scena si oscura del tutto per passare appunto nella notte d’estasi. Secondo me (ma credo non solo secondo me) questa e il settimino sono le parti più belle e coinvolgenti di tutta l’opera, che la regia ha saputo rendere al meglio, forse proprio perché la pone in duro contrasto con il grottesco e l’estraniazione degli altri momenti, quelli pomposi, quelli più retorici o anche solo quelli più epici.
Nel quinto atto si ritorna ad un tono più drammatico e a una regia più simbolista e straniante. La scenografia rimane la stessa in tutti e tre i quadri, e quindi raffigura all’inizio il porto con le navi troiane alla fonda (di fatto una grande tavola inclinata sulla sinistra, alta quasi tutto il palcoscenico, sorretta da travi oblique: simbologia di una nave a vela?), e al centro una piattaforma. Sullo sfondo l’orizzonte nero ad arco rovesciato. sovrastato da un cielo chiaro sul quale sta tramontando la luna. Tutti i movimenti scenici dei quadri riguardano appunto lo sfondo, che gradualmente diventa nero nell’ultimo quadro, al momento della morte di Didone.
Da notare un paio di reminiscenze monteverdiane, come il duetto, comicizzante, fra due sentinelle troiane, che non vorrebbero lasciare la terra cartaginese, dove si sono trovati bene, e l’aria di addio di Didone, che mi ha ricorda l’aria di addio di Ottavia alla fine dell’Incoronazione di Poppea.
Nell’ultimo quadro, prima della morte di Didone, sulla scena si svolge una specie di rito, non presente nelle didascalie del libretto, che sembrerebbe lo svolgersi di un sacrificio umano.
Gli interpreti. Molto brave sono state sia l’interprete di Cassandra (Nadja Lichael) sia quella di Didone (la Violeta Urmana, che ha fatto un’interpretazione veramente incredibile in un ruolo estremamente pesante). Purtroppo Jon Villars (Enea) ha avuto dei problemi di salute, annunciati all’inizio dell’opera, e puntualmente verificatisi pesantemente nell’ultimo atto. Per lui applausi di gratitudine.
Metha ha diretto l’orchestra con grande sensibilità: grande vigore nei momenti epici, grande commozione in quelli teneri, come il settimino e il quintetto. Molto bella anche la caccia reale e il temporale (fatta salva una piccola stecca dei corni).
Insomma, uno spettacolo che ha dato momenti di autentica emozione, ma mi ha dato anche interessanti spunti di riflessione, che malamente e in parte ho espresso in questo post.