SLY, di Wolf-Ferrari dal MET (diretta radiofonica)
Un sabato dello scorso aprile ho registrato dal Metropolitan un’opera che a suo tempo la RAI avrebbe dovuto trasmettere in diretta da Torino, ma che poi per le solite ragioni non ha fatto. Si tratta di Sly di Wolf-Ferrari, autore operistico non molto frequentato, almeno in Italia, e che ha composto per lo più commedie derivate da Goldoni (e che io non conosco).
Ad un primo ascolto l’opera mi era sembrata alquanto banale. Ma, come spesso mi accade, il giudizio era rimasto in sospeso. Era brutta l’opera o ero io che non avevo capito nulla? Poiché queste sospensioni lasciano un senso di vuoto, e poiché alla fin fine io ero convinto che il secondo corno del dilemma fosse quello più “vero”, recentemente ho ripreso in mano il CD, e me la sono ascoltato e riascoltato. Forse non avrò scoperto (per me si intende) un capolavoro, ma certamente mi sono accorto di essermi avvicinato un’opera molto bella e interessante.
L’argomento dell’opera si rifà al prologo della Bisbetica Domata: una burla fatta a spese di un povero ubriacone che durante il sonno è portato nel palazzo di un ricco e nobile signore, rivestito, profumato, e quant’altro, e al risveglio gli è fatto credere d’essere egli stesso un Lord, che, per varie cause, aveva in passato perso ragione e memoria. Questo scherzo è stato ripreso in modo farsesco da Sordi in un suo film, il Marchese del Grillo.
Nel libretto di Sforzano, tuttavia più che di una burla (com’è in Shakespeare), si tratta di un’amara beffa con un finale tragico.
Sly è un povero cantore di taverna (com’egli stesso si definisce), chiamato di quando in quando ad allietare convivi con le sue canzoni e le sue ballate. È un personaggio triste e solo, e cerca quella felicità che la vita gli nega, nell’alcol e nel sonno che l’alcol gli procura, facendolo sognare.
La vicenda è presto raccontata. La scena si apre su una serata in Taverna: gente che beve, che gioca, che litiga, etc. Arriva Dolly, la moglie (amante?) del conte di Westmoreland, una bellissima donna che a palazzo si annoia a morte, e cerca diversivi fra il popolo schietto. Poco dopo sopraggiunge il conte in persona alla ricerca della moglie; vista l’atmosfera allegra e piccante decide di fermarsi. Entra Sly, inseguito dalla legge che lo vorrebbe in prigione per debiti. Gli amici lo nascondono, e Sly per riconoscenza canta una ballata, la Ballata dell’orso, divertendo tutti. Dopo la ballata Sly torna a bere finché, ubriaco, si addormenta.
Nasce cosi nel conte l’idea della beffa. Sly sarà portato al suo palazzo e gli si farà credere di essere egli il conte, guarito da un lungo stato di follia e amnesia.
Così infatti avviene nel secondo atto. Tutti i più che legittimi dubbi del cantore al momento del risveglio trovano risposte appropriate da parte del conte (nelle vesti di servo) e della sua corte opportunamente istruita. Ma quello che alla fine sembra interessare e convincere maggiormente Sly è la comparsa di Dolly, che si finge sua moglie. Sly, che non ha mai avuto, pur sognandolo disperatamente, l’affetto di una donna, si lascia trasportare: ma lo fa con una tale delicatezza e una tale disperazione che la donna ne viene avvinta, e la scena, da burlesca, via via si trasforma in un vero duetto d’amore.
A questo punto, tuttavia il conte decide di interrompere l’idillio e, bruscamente, rivela a Sly la beffa e lo fa gettare nelle sue cantine, dove gli vengono restituiti i suoi stracci e addirittura gli viene offerto, in cambio della libertà, l’impiego di buffone alla corte del Lord.
Ma Sly non è un buffone. Sly è ora un uomo disperato: disperato per essere rinchiuso in una cantina, disperato per essere stato crudelmente beffato, ma soprattutto disperato perché il sogno d’amore, quello che più di tutto gli aveva dato un attimo di felicità, si è rivelato la più atroce delle beffe. Decide così di togliersi la vita, mentre Dolly, che in realtà era stata affascinata e si era innamorata del cantore e aveva deciso di fuggire con lui, assiste impotente alla sua morte.
La musica riesce a descrivere in modo ricco e colorato i diversi aspetti del dramma. Cori, brevi interventi di diversi personaggi secondari (l’opera abbonda di questi personaggi), interventi orchestrali di grande sapienza timbrica caratterizzano il primo atto, che qualcuno ha voluto paragonare al prologo dei Contes d’Hoffmann. Il personaggio di Dolly è descritto da due caratteri apparentemente contrastanti: un aspetto sognante (il piacere dell’amore come trasporto dei sentimenti) da una parte, e dall’altra un aspetto trasgressivo, di insofferenza per la monotona vita di palazzo. Sotto certi aspetti questo personaggio, può ricordare un po’ la Magda della Rondine di Puccini, sia pure molto da lontano.
Il carattere del conte viene introdotto da una tronfia fanfara e viene descritto come persona strafottente, dedito solo al proprio piacere e al proprio divertimento, soddisfatto del proprio potere e insensibile ai sentimenti altrui. La musica che lo dipinge è una musica povera di colore e di melodia, quasi piatta.
Stridente contrasto con la musica che dipinge Sly. Sly è il vero protagonista dell’opera, quello sul quale la musica si sofferma più a lungo per scavarne gli aspetti psicologici: due temi soprattutto lo caratterizzano: il tema della Ballata dell’Orso (una ballata comica, ma che ha un fondo di grande malinconia in questo orso che soffre perché gli manca l’amore- si direbbe l’autoritratto di Sly), e il tema tristissimo e dolcissimo della solitudine, che si avverte, introdotto da un assolo di violino, subito dopo la ballata dell’Orso, quando Sly decide di cantare solo per sé, e canta l’arioso che inizia con le parole “Io sono inebriato”, un lungo e commuovente declamato sulla propria solitudine e il desiderio d’amore. Al termine dell’arioso Sly cade addormentato e dà lo spunto al conte per l’idea della beffa.
Il secondo atto è forse quello musicalmente più ricco: Introdotto da una citazione del tema della solitudine, proprio dell’arioso al termine del quale Sly si è addormentato, il risveglio viene accompagnato da una musica dai toni luminosi, quasi per descrivere i sentimenti di stupore di Sly. Successivamente il risveglio viene accompagnato da un dolce canto di coro senza parole, introdotto da un assolo di flauto, mentre Sly comincia a manifestare la propria incredulità. Nel prosieguo della scena le diverse situazioni che si creano (Sly che cerca di capire la situazione senza riuscirvi, e il conte e la sua corte che montano in modo sempre più convincente la beffa) vengono descritte in modo molto eloquente, con interventi orchestrali descrittivi caratterizzati da una grande ricchezza timbrica e da una grande varietà di temi.
Sono molto ben disegnati i diversi passaggi di Sly, dalla meraviglia, all’incredulità, al dubbio, fino alla speranza di avere finalmente trovato una donna che lo ami. Sly, vittima della beffa, non è uno zotico o un sempliciotto, ma è un personaggio delicato, sensibile, ingenuo, ricco di fantasia e di poesia, che vive in un suo mondo fatto di sogni e di solitudine: e il suo canto, la musica che lo accompagna, rende bene queste caratteristiche.
L’atto è interrotto da un intermezzo orchestrale che introduce Sly nel Grande Salone del palazzo dove si dovrà celebrare la festa della sua guarigione. L’intermezzo è incentrato su un tema saltellante, gioioso, orchestralmente ben costruito. Sly sembra ormai caduto nella rete e la musica ha un ché di pagliaccesco.
La seconda parte dell’atto è quasi tutta occupata dall’incontro di Sly con Dolly. Sly ha ceduto solo perché gli è stato fatto balenare il miraggio più luminoso: l’incontro con la supposta moglie, cioè con una donna che lo ami. Così, all’ingresso della donna, Sly manda via tutti e inizia un duetto tenerissimo: nella prima parte Dolly recita mentre Sly teneramente le si porge con la propria miseria, ma anche la propria poesia, con i sentimenti sempre più rapiti, con parole e con il tema che ricordano l’arioso del primo atto, ma anche il tema dell’orso. Dolly rimane impressionata e dapprima è vinta dalla pietà, ma successivamente (un po’ come accade nella Walkiria), la pietà fa strada all’amore e la scena si conclude con un vero bacio d’amore, su una ripresa del commuovente tema della solitudine/amore. Dolly ripropone il carattere sognante già intravisto nel primo atto. La scena d’amore è interrotta dalla brusca e brutale rivelazione delle beffa, dalle volgari risate della corte e dall’imprigionamento di Sly nelle cantine del palazzo, sulle note del tema dell’orso (l’amore deluso).
Il terzo atto si compone quasi esclusivamente di un lungo (il terzo) monologo di Sly, con le caratteristiche del declamato. In esso passano i diversi sentimenti che lo agitano: dapprima la vergogna, l’ira, il desiderio di vendicarsi; poi l’immagine della donna introdotta da un dolce assolo di viole che contrasta bruscamente con la violenza del declamato precedente: “No, non era pietà! No, quando mi ha baciato era sincera…” L’immagine della donna prevale all’inizio con la sua dolcezza e il ricordo di momenti di mai provata felicità. Poi, su una musica singhiozzante, si fa strada la verità! Come è possibile che una donna così bella possa innamorarsi di uno straccione! Questa è la beffa più atroce. In tono concitato la musica lo riporta alla bottiglia, e poi ad un pianto disperato, che apre la strada all’idea della morte, preceduta da un tremulo negli archi bassi. Ora la morte diventa un’invocazione: l’orchestra assume un tono quasi di solennità. La morte non è altro che il sonno senza risveglio, quel sonno che gli dava la bottiglia e gli faceva dimenticare tutto il suo dolore aprendolo a dolci sogni. Ora la morte gli darà sogni eterni, e a darglieli sarà ancora la bottiglia (“la sola compagna che mi hai dato sempre l’oblio e con l’oblio le gioie”), con i cui cocci si taglierà le vene. Non c’è tragedia in questa morte, ma solo una tenera dolente elegia, senza impennate orchestrali, ma solo un accompagnamento, che si prolunga con l’apparizione di Dolly. Dolly è venuta a chiedergli perdono e per fuggire con lui. M è tardi. A nulla vale la sua comparsa. L’unica cosa che la donna può fare è dare a Sly l’ultimo bacio. Solo ora l’orchestra e il canto hanno un’impennata tragica che conclude l’opera.
Il linguaggio di Wolf-Ferrari, a differenza dei suoi coetanei della cosiddetta generazione dell’Ottanta, è rigorosamente tonale. L’armonia naturalmente consonante, con dissonanze solo sporadiche in punti in cui l’espressività lo richiede. Lo stile viene definito dai critici eclettico, con reminiscenze wagneriane, pucciniane, e offenbachiane, oltre a richiami di musica settecentesca, come nel caso del coro muto che accompagna il risveglio all’inizio del secondo atto. Ma pur con tutte queste citazioni, occorre rilevare la ricchezza della musica, la varietà timbrica, l’espressività nelle diverse situazioni, e soprattutto la straordinaria caratterizzazione di Sly, che è veramente convincente e pertanto commuovente.
Il tono dell’opera non è classificabile come melodramma, anche se vi è una fine tragica, (ma come si è visto, più elegiaca che veramente tragica), ma neppure come commedia. C’è una specie di arcata drammaturgia che percorre i tre atti: da un tono di vera e propria commedia del primo atto, si passa al secondo dove la commedia si mescola alla commozione e viene poi sopraffatta da quest’ultima. Nel terzo atto domina l’aspetto drammatico, sia pure in “tono medio”, e comunque sempre strettamente intrecciato all’elemento commotivo.
L’esecuzione. Pur non avendo criteri di paragone, a me è sembrata eccellente. Lo Sly di Domingo è vivo, coinvolgente, sofferto, tale da rendere bene le complesse caratteristiche del personaggio. La Guleghina dà alla figura di Dolly una certa asprezza, che sotto alcuni aspetti le si addice, ma forse non rende pienamente i momenti di maggior sentimento che pur nel personaggio si fanno strada, in piccola parte nel primo atto, in parte maggiore nel duetto della fine del secondo atto. Ottimo Pons nella figura del conte, con un canto tagliente, freddo, falsamente entusiasta nel secondo atto quando monta la beffa ai danni di Sly.
La direzione di Marco Armiliato, direttore italiano che pare molto apprezzato al MET, ha reso molto bene tutta la fantasmagoria timbrica dell’orchestra di Wolf-Ferrari.