IPHIGÉNIE EN AULIDE, agli Arcimboldi
Finalmente ho potuto vedere quest’opera, e devo dire subito che sia l’opera che la sua rappresentazione mi hanno entusiasmato. Cercherò di metterne in evidenza i motivi. Purtroppo dovrò dilungarmi un po’ troppo, e di questo chiedo scusa preventiva a coloro che vorranno leggere il post.
Intanto l’espressione drammaturgica (derivata fondamentalmente da Racine). Bella, compatta, essenziale: Un primo atto che ambienta la tragedia e fa conoscere i retroscena, pur già entrando nell’azione. Un secondo atto nel quale l’azione si sviluppa, e un terzo in cui si conclude. Da notare come la forma dei primi due atti si ripeta: una prima parte in cui prevalgono scene e sentimenti di dolcezza e gioia (nel primo atto l’arrivo di Ifigenia e Clitennestra e l’omaggio alla principessa; nel secondo atto le nozze, non portate a termine, di Ifigenia con Achille), quindi un colpo di teatro forte (nel primo atto la notizia data da Clitennestra che Achille è spergiuro, nel secondo atto la rivelazione di Arcas sul prossimo sacrificio) e una seconda parte di grande tensione (il duetto Achille-Ifigenia nel primo atto e il duetto Achille-Agamennone e il monologo di Agamennone nel secondo). Da notare tuttavia come i due atti siano diversificati nell’intensità dei sentimenti, essendo questi nel secondo atto molto più forti che nel primo. Nel terzo atto vi è invece una simmetria speculare, con un crescendo di tensione fino all’irruzione di Achille e i tessali sul luogo del sacrificio, il colpo di teatro dell’apparizione di Diana, e il finale di gioia, nel quale, stante alla versione originale di Gluck, si celebrano finalmente le nozze. In alcune occasioni ho letto l’affermazione che nel primo atto non succede niente. A questo proposito mi viene in mente un’osservazione di Sciarrino: “Ma in quale opera succede qualche cosa?”. Nell’opera, come anche nel teatro in prosa, è molto difficile che i fatti avvengono sulla scena, mentre sulla scena vengono espressi sentimenti, stati d’animo che i fatti (in genere accaduti fuori scena) determinano. Il primo atto dell’Ifigenia è essenziale sia ai fini dell’intreccio (in quella sede si sviluppa e si scioglie l’intrigo di Agamennone) sia ai fini dell’equilibrio drammaturgico globale.
Quello che è straordinario è come la musica sappia esprimere questa
drammaturgia, e come riesca a tradurla in stati d’animo e sentimenti che
si propagano direttamente all’ascoltatore.
È in sostanza la rivoluzione di Gluck. Non più arie e recitativi che
si succedono in alternanza, con le arie infarcite di gorgheggi,
virtuosismi vocali, interminabili a capo, e recitativi totalmente
inespressivi accompagnati dal clavicembalo. Ma arie e recitativi
concorrono tutti e due, attraverso il continuum del declamato, a
sviluppare l’essenza del dramma: i primi con linee melodiche eloquenti,
accompagnate da eloquenti interventi dell’orchestra (per esempio accordi
strappati, magari dissonanti quando la tensione cresce, addirittura
ripetuti tre volte quando la tensione è al parossismo; oppure lunghe
note tenute in pianissimo quando il recitativo esprime sentimenti di
tenerezza, di sofferenza; o ancora piccoli incisi tematici magari
ripetuti in ostinato quando l’azione si evolve, etc.); le seconde con
brevi melodie, asciutte, all’interno delle quali emergono brevi riprese
del declamato, del recitativo o dell’arioso. Il tutto quasi senza una
vera e propria interruzione, tanto che possiamo dire che il declamato
del recitativo si continua nel declamato dell’arioso e poi nell’aria. E
soprattutto c’è la ricchezza dei cori, e degli ensemble (duetti,
terzetti, quartetti) che sono quelli che danno più movimento
all’azione. La drammaturgia si identifica con l’opera, e lo spettatore
ne è coinvolto fino in fondo.
La musica è bellissima. Difficile citare i momenti salienti, quelli da
considerare i più belli. Già l’ouverture. Inizia come un lamento per impennarsi quasi subito in
una progressione forte, una spinta in avanti che mi ha fatto pensare a
Beethoven, ma che, senza una conclusione canonica, passa direttamente
nel monologo di Agamennone che apre l’opera.
Poi i cori: vi sono motivi vivaci, addirittura convulsi (mi fanno
pensare ai cori della Passione secondo Matteo) quando i greci chiedono
il nome della vittima (primo atto) o quando insistono perché la vittima
venga immolata (terzo atto). O, al contrario cori esprimono dolcezza
infinita, anche con andamento danzante, per es. nelle occasioni delle
cerimonie, in cui viene manifestato l’affetto del popolo per i giovani
eroi (Achille e Ifigenia). Si pensi solo alla bellezza del coro della
schiave di Lesbo, ma tanti altri sono certamente non meno belli.
I personaggi esprimono (pur senza indulgere a introspezioni
psicologiche) un carattere ben definito, che attraversa tutta l’opera.
Ma sono personaggi viventi e vitali.
Agamennone, la cui sofferenza si esprime già nel primo recitativo,
intrappolato fra le sue responsabilità di capo dei Greci, e il suo
affetto di padre che lo porta al desiderio di ribellione nei confronti
degli dei, fino al ridicolo tentativo di inventarsi il tradimento di
Achille per tener lontano la figlia da Aulide. Ha tre monologhi
straordinari, due all’inizio del primo atto e uno alla fine del secondo
in cui tutta la sua tragedia viene fatta rivivere sulla scena. Si prenda
il monologo del secondo atto: un recitativo che passa nell’arioso e poi
nell’aria. Mi ha fatto pensare al monologo di Wotan nella Valchiria,
quando egli spiega alla figlia che è obbligato a sacrificare la vita
del figlio Siegmund per poter onorare il dettato delle rune e la
responsabilità che ne deriva. Non mi sembra improbabile che Wagner (che
conosceva bene l’opera di Gluck e l’amava moltissimo) si sia ispirato
proprio a questo episodio.
E subito prima di questo monologo, il teso, intenso duetto fra lui e
Achille, nel quale egli non può che manifestare l’arroganza del suo
potere e della sua responsabilità, contro un Achille deciso a fermare
la sua mano sacrificale.
Ifigenia. Prototipo della vergine virtuosa, presa fra l’amore per il suo
Achille e il sentimento di obbedienza al padre e alla volontà degli
dei. La sua musica è dolce, tenera, dolorosa nei momenti cruciali. Nel
contrasto con Achille, nel primo atto, le sue accuse si piegano subito,
non appena si rende conto dell’amore dell’eroe, con la bella aria
”Iphigénie, helas“. Ma tutte le sue arie hanno questo andamento di
dolcezza, di tenerezza, espresso da belle melodie, come le tre arie di
addio del terzo atto, nelle quali il dolore non è mai urlato, ma più
preoccupato del dolore che la sua morte provocherà nell’amato Achille,
nella madre Clitennestra, nell’abbandono del fratello Oreste, che non
sconvolto dall’ingiustizia che è costretta a subire. Molto bello mi è
parso il duetto (fatto di arie e recitativi) fra lei e Achille: un forte
contrasto iniziale fatto di recitativi, due arie in cui il contrasto si
stempera, un unisono finale in cui il chiarimento è completo.
Splendido!
Clitennestra. Forse il personaggio che più è soggetto a cambiamenti
nel corso dell’opera. La incontriamo regale nella sua prima aria,
combattiva e indignata quando invita la figlia a cacciare Achille
”Armez-vous d’un noble courage“, dolente in “Par un pere cruel“, e alla
fine, nel terzo atto, nel monologo, quando esplode in lei la ribellione
per la crudeltà del marito e per l’ingiustizia sanguinaria degli dei,
”Dieux puissante que je atteste“, e nell’aria successiva “Jupiter lance
la foudre”, di grande tensione e bellezza. Una vera tigre ferita.
Quest’ultima aria, per intensità, è paragonabile alla bellissima aria
di disperazione che conclude l’Armide.
Achille, il quarto protagonista, è un po’ il prototipo dell’eroe
offeso: prima da Ifigenia, con le sue accuse di infedeltà, poi da
Agamennone, come nel duetto del secondo atto. Ma alterna anche momenti
di dolcezza, come nell’aria “Cruel, non, jamais votre insensible coeur“,
o di felicità “Chantez, celebrez“.
Più tradizionali sono i divertissement, che tuttavia non appaiono come
corpi estranei all’azione, tali da interromperla, me vi si riflettono.
Essi hanno uno spazio proprio nei due momenti rituali (l’arrivo di
Ifigenia e Clitennestra nel primo atto, e la scena delle nozze nel
secondo) quando la tensione drammatica è al minimo. La musica è bella
(per esempio c’è una bella sarabanda con le variazioni canoniche) ma ha
uno stile, rispetto al resto dell’opera, molto più tradizionale.
La rappresentazione.
Anzitutto la regia. Mi è piaciuta moltissimo. La scenografia è
semplice: un ambiente che potrebbe essere chiuso o aperto, percorso da
una ampia scala che sale verso sinistra, e pareti che delimitano di
volta in volta gli spazi. I colori sono il bianco e il nero. Questi due
colori dominanti, danno a tutto l’ambiente un senso claustrofobico:
all’apertura del sipario si ha immediatamente la sensazione di un luogo
dove maturerà una tragedia rituale. I cambiamenti di scena vengono
fatti a vista mediante lo scorrimento parziale o totale di pareti.
Alcune statue di varia dimensione, color terracotta, sono poste
all’intorno (non hanno alcun significato scenico se non quello di
richiamare l’attenzione all’ambiente della Grecia Antica).
Lo sfondo è rappresentato da uno specchio che riflette una specie di
giardino nella parte posteriore, dove si svolgono alcuni aspetti
dell’azione. Non ho trovato questa idea particolarmente efficace. Non
credo all’affermazione di un regia semplice che non distoglie dalla
musica. Credo invece ad una regia che si sposi perfettamente con la
musica, esprimendo sul piano visuale le stesse sensazioni che la musica
e il testo trasmettono. E questo mi è sembrato proprio il caso di
questa regia.
I costumi sono un misto di settecentesco, di antica Grecia, e di
fantasia. I personaggi maschili indossano parrucche bianche con il
codino (i maschi) o acconciature diverse (le femmine). I vestiti sono
tutti neri con alcune macchie di colore: blu intenso, o giallo per
Achille e i tessali. Gli uomini indossano pseudodivise militari, con
decorazioni auree e ampi mantelli, le donne ampie vesti ricoperte da
ampi mantelli, con pieghe come si ricorda nelle statue di Fidia: quella
di Clitennestra blu intenso con iridescenze, quella di Ifigenia a colori
più chiari.
I movimenti delle masse sono una delle cose che più mi ha colpito. Il
coro si presenta quasi sempre ammassato, anche negli spostamenti. Le
vesti nere dei coristi si fondono, lasciando intravedere una massa unica
dalla quale emergono le teste con la bianca parrucca: si potrebbe
immaginare il coro come una sola persona, ovvero come un’idra dalle
cento teste. La cosa mi è parsa molto efficace e molto coerente con la
musica.
I movimenti dei singoli non necessitano di alcun commento. Abbastanza
tradizionali, non tendono a ricostruire sulla scena dei tableau, ma
seguono semplicemente l’azione.
Nei balletti mi ha colpito una bella coreografia nel balletto che
precede la sarabanda: un’azione mimata fra la Grecia (impersonata da una
ballerina con costume adatto) e il mare, un’altra ballerina con uno
strascico lunghissimo di color azzurro che nelle movenze della danza si
espande e si agita come percorso da onde: valore simbolico del rapporto
fra i Greci e il mare proprio lì ad Aulide, dove deve compiersi il
sacrificio di Ifigenia. In altre occasioni il corpo di ballo porta sulle
braccia alzate dei modellini di navi (qui la simbologia mi è parsa meno
interessante).
Nella sarabanda il balletto riproduce lo scontro fra due schiere di
guerrieri stilizzati (mi pare sei e sei) e distinti dal diverso colore
(bianco e nero) dei costumi e dell’armatura (lancia e scudo). Gradevole,
ma nulla di eccezionale.
La direzione orchestrale.
Personalmente l’ho trovata formidabile. Ma credo che qui convenga fare
una considerazione storica. Quest’opera data 1774. È un’opera di
svolta, non solo in quanto fa parte della “riforma”, ma anche
all’interno dello stesso percorso della riforma. Le opere precedenti,
Orfeo e Alceste (come, penso anche Paride ed Elena, che non conosco),
composte su libretto di Calzabigi in italiano, pur rappresentando
l’avvio della riforma e della nuova concezione della drammaturgia
musicale (si veda a questo proposito la prefazione scritta da Gluck alla
partitura dell’Alceste, molto interessante e utile per capire il senso
della riforma), mantengono ancora un sapore discretamente arcaico: il
procedere della musica è più solenne, più lento; mantiene quindi
molte delle caratteristiche di gusto dell’opera italiana. Nell’Ifigenia
si produce un cambiamento di clima che completa la riforma: l’opera, la
prima composta su testo francese, come ho scritto sopra, è intensa,
compatta, gli eventi si succedono con rapidità (lo stesso Gluck
raccomandava questo, contro le lungaggini dell’opera metastasiana). È
un po’ la porta spalancata sul futuro: l’opera che porterà a Salieri,
Spontini, Cherubini e poi successivamente al Grand-Opéra francese o, in
Germania, a Wagner.
Io credo che una direzione orchestrale debba tener conto di questo.
Cercare di riprodurre “filologicamente” il modo di ascolto che si poteva
supporre esistere alla fine del XVIII secolo, significa mortificare
questo valore rivoluzionario, valorizzare gli aspetti più obsoleti
dell’opera (che pure esistono), e mettere in secondo piano gli aspetti
essenziali, quelli rivoluzionari. Operazioni di questo genere potrebbero
essere giustificate, che so, con Piccinni. Ma non certo con Gluck.
La direzione di Muti mi sembra che abbia pienamente centrato questi
valori dell’opera gluckiana, dando forte evidenza agli aspetti
drammatici, alla propulsione drammaturgica. Già questo lo si avverte
nei tempi molto più ristretti dell’Ouverture (ad esempio rispetto alla
direzione di Gardiner), ma anche nell’uso dell’orchestra
nell’accompagnamento dei recitativi o delle arie: mettere sempre in
risalto il declamato. Faccio un esempio che mi sembra emblematico:
l’aria di Clitennestra “Per un père cruel” è introdotta da un
bellissimo suono dell’oboe. Si tratta di un’aria in cui Clitennestra, in
preda a grande dolore supplica Achille di salvare la figlia. Ecco
quest’aria può essere interpretata con l’andamento tipico delle arie
barocche (mi viene in mente una bellissima aria della Passione secondo
Matteo “Buss und Reu“), oppure può esserne sottolineato l’aspetto
drammaturgico in continuità col recitativo che la precede e con la successiva risposta di Achille, che non lasciano nulla al dolore
espresso di per sé, ma che richiedono una espressione di dolore in una
persona fisica per un evento concreto.
La cosa che invece mi ha convinto poco è stato l’uso del finale
wagneriano. Io non credo che abbiano molto senso le critiche “Muti
filologo con il trovatore e Verdi, non filologo con Gluck” e altre
trovate del genere, fatte tanto per fare un po’ di contrapposizione. Mi
sanno un po’ di stantio. Quello che mi interessa è cercare il senso del
prodotto che viene offerto, e la sua coerenza drammaturgica.
Qui il finale wagneriano mi ha dato troppo la sensazione di una cesura
stilistica. È vero che i finali di Gluck sono finali che lasciano un
po’ in sospensione. Manca la nota finale coronata che sancisce la fine
dell’atto o dell’opera. Ma in Wagner mi sembra che si cada dalla parte
opposta. Già il clima aperto dai legni che introducono l’arrivo della
dea, ha un sapore che ricorda molto il Lohengrin, ma poi il finale, con
quella sua ampia apertura dell’orizzonte sonoro, mi sembra che ci
riporti in finali come quello dell’Oro del Reno. Tutto questo contrasta
con l’asciuttezza dello stile di Gluck che non indulge certo alle
atmosfere sfumate o agli ampi orizzonti sonori. Cesura di stile, quindi,
che non mi sembra giustificata neppure dalla ovvia considerazione che il
lieto fine scritto da Gluck sia striminzito e che alteri sia il mito,
sia la tragedia di Euripide, sia quella di Racine, sia il prosieguo
della storia con l’Ifigenia in Tauride. Per me l’opera, questa come le
altre, è una fatto drammaturgico chiuso in se stesso e non una
telenovela a puntate.
Il canto. Mi sembra di non dire nulla di nuovo se dico di essere stato
ammaliato dal canto della Barcellona, vera tigre con gli artigli (Il suo
”Jupiter lance la foudre” è stato entusiasmante per la ferocia con cui
l’ha cantato), a suo perfetto agio con una tessitura che in molti casi
viene affidata a dei soprani; e pure sono stato entusiasmato da quello della Urmana, che ha dimostrato doti notevoli nell’impersonare un
personaggio come Ifigenia, dalla tessitura drammatica ma con moltissimi
sconfinamenti in quella lirica. Entrambe le soprano mi hanno offerto
personaggi vivi e vitali, così come essi sortiscono dall’opera di
Gluck.
Il baritono Robertson ha cantato molto bene ed ha saputo esprimere con
sufficiente chiarezza e credibilità il ruolo tormentato di Agamennone.
Quello che invece mi ha lasciato perplesso è stato Brown, il tenore,
nei panni di Achille. Timbro vocale poco piacevole, e spesso forzature,
soprattutto nella tessitura acuta, e soprattutto non eccelsa
interpretazione di un ruolo (certo, credo molto difficile) di un eroe
che più che guidare, sembra subire le vicende. Di buon livello mi è
sembrata anche la performance delle nutrita schiera di personaggi più o
meno secondari.
Insomma, uno spettacolo bellissimo, che mi ha ricordato l’entusiasmo con
cui, a suo tempo, ho assistito all’Armide. Un Gluck ammirevole, vero
precursore di tutta l’opera successiva, sia neoclassica, sia romantica,
offerto in una esecuzione estremamente coerente in tutti i suoi aspetti,
da quello scenico-registico a quello musicale vero e proprio. Se qualche
neo c’è stato, francamente non mi è perso tale da attenuare il mio entusiasmo e il grande piacere che ho provato per avere assistito a
questo spettacolo.