DER ROSENKAVALIER, al teatro degli Arcimboldi
Il turno C mi ha permesso di vedere lo spettacolo solo ieri sera. Molti hanno già manifestato le loro riflessioni, e personalmente non ho molto da aggiungere, anche perché non ho la cultura musicale di un professionista del settore. Comunque qualche riflessione come semplice spettatore, mi sento di farla.
Come ho già ripetutamente osservato, nelle opere io sono particolarmente attratto dall’aspetto teatrale: mi interessa soprattutto cercare di capire l’interpretazione globale del lavoro come viene comunicata dall’insieme di musica, canto, regia teatrale, scenografia etc. Per questo quando mi reco a vedere un’opera, pur conoscendo per ripetuti riascolti diverse interpretazioni discografiche, cerco di lasciare queste nel cassetto. Quello che mi interessa non è tanto un confronto qualitativo di esecuzione (per il quale, oltretutto, certamente mi manca la competenza) quanto la curiosità di vedere che cosa offre l’interprete di turno. In questo caso, nel Rosenkavalier rappresentato agli Arcimboldi, Tate e Pizzi.
Devo confessare che mi è stato difficile, in questa occasione, lasciare
l’edizione diretta da Kleiber nel cassetto, tanto essa è coinvolgente e
tanto è capace di trascinarmi ogni volta che la guardo. È un’edizione,
quella del ’72 a Monaco, che conosco abbastanza bene per averla
ripetutamente ascoltata e vista (ho il relativo LD).
Questo mi ha reso difficile riuscire a sgombrare la mente ed entrare
senza difficoltà nella rappresentazione di mercoledì sera.
Così ho provato un certo fastidio. Lo spettacolo cui assistevo non è
che non mi piacesse. Al contrario: l’ho trovato uno spettacolo curato e
anche con delle idee. Ma quello che mi è mancato è quel coinvolgimento
che mi sarei aspettato. Anche perché, diretto da Tate, ho ammirato alla
Scala uno splendido Peter Grimes (oltre ad avere alcune registrazioni di
sue esecuzioni) che me lo ha fatto considerare un grande direttore.
Per me il Rosenkavalier è un’opera molto bella, ma con alcune difficoltà, sia di
tipo drammaturgico sia, conseguentemente, di tipo musicale.
Il libretto è forse il più bel libretto d’opera che io abbia letto. La
sua drammaturgia è perfetta. Non è il caso di entrare nei particolari,
ma in ogni atto i richiami che devono portare dalla situazione iniziale
(la notte d’amore fra Octavian e la Marescialla) alla situazione finale
in cui Octavian abbandona la Marescialla per Sophie, sono perfettamente
dosati, scanditi, e si dipanano perfettamente nel breve periodo in cui
dura la vicenda, immersi in una cornice ricca di eventi, tutti
indispensabili per dare credibilità drammaturgica. Occorrerebbe
conoscere il tedesco per entrare in un linguaggio, quello di
Hofmannsthal, che si dice bellissimo e soprattutto adeguato ai vari
personaggi. Si dice, e credo a ragione, che questo libretto potrebbe
essere rappresentato in un teatro di prosa senza perdere il suo fascino
e la sua attrattiva.
La musica di Strass ci guazza. Tutti i diversi riferimenti trovano i
loro temi, gli sviluppi, i diversi rapporti che ricostruiscono con la
musica sviluppi e rapporti degli eventi e dei pensieri dei personaggi
(soprattutto della Marescialla che, con la sua malinconia sul tempo che
trascorre inesorabile e sulle conseguenze da esso generate, è un po’ il
perno sul quale ruota tutta la vicenda).
Ma mentre il primo atto si presenta pressoché perfetto, con la sua
tripartizione, drammaturgica e musicale (quasi come la struttura di una
sinfonia: la scena dell’intimità; la commedia centrale; la scena della
malinconia finale), gli altri due atti soffrono di un certo squilibrio,
e direi soprattutto il secondo.
E stranamente lo squilibrio si ritrova non tanto nel libretto, quanto
nella musica. La scena del colpo di fulmine durante la consegna della
rosa è di una bellezza unica: qui il tempo realmente si ferma (quel
tempo così temuto dalla Marescialla). C’è un momento di vera estasi di
sentimenti e di musica. Ma dopo questo esordio di sogno, l’atto ha un
brusco risveglio ed entra nel clima della commedia senza più
abbandonarlo. Vi è sproporzione. La scena iniziale occupa solo un
quarto circa della durata dell’atto, e nessuno dei temi della scena
iniziale sarà successivamente richiamato, e tanto meno il clima. Di
questa difficoltà drammaturgica, oltretutto erano ben consapevoli anche
Strauss e Hofmannsthal, come appare dalla loro corrispondenza. Una
situazione analoga, ma invertita, si verifica nel terzo atto. Ma in
questo caso può essere più comprensibile, dato che la parte più
lirica, più avvolgente ed emozionante è riservata al terzetto-duetto
finale, dove tutti i temi, di Octavian, della Marescialla e di Sophie
vengono ripresi in un clima di tenerezza, malinconia, trasporto
meravigliosi. Con questo terzetto si chiude il ciclo aperto dalla scena
di intimità fra Octavian e la Marescialla nel primo atto.
Pizzi, per sottolineare questa conclusione, ha avuto un idea che lì per
lì mi è parsa intelligente: così come all’inizio Octavian, sul grande
e sontuoso letto, ricorre ripetutamente alla parola “tu” rivolta alla
Marescialla, mentre nell’orchestra risuonano i temi a lei riferiti, nel
finale mentre Octavian ripete lo stesso “tu” nei riguardi di Sophie, i
due si sdraiano nel letto della locanda mentre nell’orchestra risuonano
i temi di Sophie. Simmetria.
Tuttavia questo, ripensandoci, mi sembra abbia alquanto banalizzato la
conclusione, che a mio avviso avrebbe dovuto essere di sospensione, come
sembra suggerire l’intervento finale del piccolo Mohamed, figura
strettamente legata alla Marescialla e alle sue interiori tensioni.
Per tornare all’esecuzione, oltre a questo aspetto registico, che diceva
qualche cosa di nuovo (anche se non del tutto pertinente), mi è
sembrato interessante, nel primo atto, la sottolineatura dell’elemento
tripartito, con i tre cambiamenti di scena, tutti a vista tramite
piattaforma rotante, come è costume di Pizzi (mi ricordo la rotazione
dell’Isola dei morti nella seconda parte dell’Ariadne).
Altro di notevole non ho trovato: la solita ricerca del sontuoso nel
primo atto; una piattezza scenografica (molto più ottocentesca che
settecentesca) e gestuale nel secondo; uno strano ambiente nel terzo,
per me abbastanza incomprensibile, che pur tuttavia non mi dava alcuna
sensazione particolare.
La direzione d’orchestra, come ho già detto non mi ha strappato dalla
poltroncina per farmi entrare nell’animo malinconico della principessa,
o nell’estasi del colpo di fulmine, etc. Chiara, ben eseguita, ma, per
me, esteriore, più descrittiva che coinvolgente.
E dello stesso tono il canto. Mi è piaciuto al di sopra di tutti Kurt
Rydl, vero mattatore. Mi ha deluso la Aikin, dalla quale mi aspettavo
molto di più, vista la sua bella interpretazione di Zerbinetta che ho
visto qualche anno fa alla Scala. Nessun commento sulla Kristine Jepson
e sulla Whitehouse che hanno fatto il loro dovere senza particolarmente
eccellere.
Va beh, queste sono state alcune delle mie impressioni.