FIDELIO, agli Arcimboldi
L’attacco di Muti dell’Ouverture mi ha proiettato ai tempi della mia giovinezza, quando i primi 33 giri da me acquistati delle sinfonie di Beethoven dirette da Toscanini, mi avevano fatto prendere una vera e propria cotta per il compositore. È stata una sensazione indicibile nelle quale si sovrapponevano, riportati in vita e se possibile amplificati, i sentimenti di estasi, di passione che provavo allora, e il senso di nostalgia che si accompagna inevitabilmente ai più bei ricordi della nostra vita passata. Ho trascorso tutta l’ouverture in questo stato d’animo, e alla fine ho sentito un invincibile impulso di correre ad abbracciare Muti, gli orchestrali, e magari anche il pubblico seduto vicino a me, tanta era la mia gioia, tanto forte era il senso di liberazione che prende alla fine di un brano che assorbe tutta la nostra attenzione e, assieme a lei, le nostre energie. Grande Beethoven in questa ouverture, in cui ci parla con veemenza, forza di convinzione delle sue idee, del suo fuoco interiore, e che sa trasmetterlo, incendiarlo anche dentro di noi. Ouverture breve, non eloquente, ma categorica, convincente più per la sua forza che per la sua complessità. E grande Muti che questo fuoco ha trasmesso lucente, chiaro, intenso. E grande un’orchestra che ha suonato compatta, con grande convinzione, quei timpani, così pieni di mistero, e quei corni così luminosi. Il timbro del corno ha su di me un fascino speciale, ma per ottenere questo effetto il suo timbro deve essere limpido, pulito, senza la minima sbavatura, che rovinerebbe tutto: e i corni dell’orchestra della Scala, in questa ouverture, e più avanti nella grande aria di Leonora, hanno fatto il miracolo.
Una delle novità di questo Fidelio, ripresa della produzione del 1999, è stato il quasi totale rinnovo del cast vocale. I commenti parlavano di rinnovamento completo, a parte la Meier. In realtà anche l’altro ruolo femminile era lo stesso, la Aikin. Il rinnovamento invece era completo nei ruoli maschili. Per quanto mi possa ricordare (anche aiutato dal riascolto della registrazione che ne feci) rispetto alla rappresentazione del ’99, il cast dell’attuale rappresentazione mi è sembrato più compatto, più omogeneo e anche drammaturgicamente più efficace. A volte basta qualche piccola modificazione nelle parti, perché l’insieme cambi aspetto. Ad esempio il ruolo di Don Pizarro. Kappelmann nella precedente esecuzione mancava di grinta, e questo finiva per afflosciare un po’ tutto quanto. Don Pizarro è l’antagonista, e se l’antagonista non c’è o latita, anche i protagonisti perdono molta della loro efficacia. In questa rappresentazione Schulte di grinta ne ha messa fuori parecchia, sembrava quasi un ufficiale delle SS di quelli cattivissimi. E questo ha illuminato sia la parte di Rocco, sia quella stessa di Leonora, e i contrasti sono stati molto più credibili e drammatici. Ottimo quindi il duetto fra lui e Rocco, e splendida la Meier nella sua grande aria, che segue subito il duetto. E così si è passati dalla ferocia espressa da Don Pizarro e subita dal povero Rocco, attraverso un recitativo energico, ad un’aria di contenuto dolore, di timorosa speranza, di dichiarazione d’amore di grande tenerezza. E in questo l’orchestra, molto ben diretta da Muti ha dato tutto il sentimento necessario, con i corni che, in primo piano, hanno tracciato i loro fasci di luce e di speranza.
La regia di Herzog e le scene di Frigerio (esteticamente brutte, rozze,
ma drammaturgicamente efficaci) hanno prodotto un’atmosfera
claustrofobica che mi sembra interpretare molto bene lo spirito di
un’opera nella quale il raggiungimento della sospirata libertà deve
passare attraverso cupe e atroci vicende, che non solo colpiscono il
corpo delle vittime, ma soprattutto lo spirito. E questa atmosfera
claustrofobica, secondo me, si è rivelata particolarmente efficace nel
quartetto del primo atto, dove Beethoven ha collocato le domande alla
quali sarà data risposta nel corso dello svolgimento dell’opera. Un
quartetto dove ogni personaggio parla a se stesso e si interroga su ciò
che dovrà accadere; non c’è dialogo. L’atmosfera sonora, musicale, il
canto invitano ad una sospensione, che registicamente è stata molto ben
costruita, con i quattro personaggi in piedi, immobili, staccati gli uni
dagli altri, in questo ambiente che non lascia librarsi la fantasia, ma
che costringe i pensieri a ripiegarsi su se stessi. E il canto e la
musica procedono quasi con circospezione, come se non si volesse rompere
l’incanto di una domanda preoccupata, di un’attesa ansiosa.
Meno pertinente mi è parsa, in ambito registico, l’introduzione al
secondo atto. Il breve preludio orchestrale che precede l’aria di
Florestano è stato raffigurato da individui che rappresentavano
figurativamente un incrocio fra minatori e carcerieri, e che
discendevano lungo una complessa macchina, come per raggiungere il
sotterraneo (miniera?) in cui languiva Florestano. Mi pare che Herzog,
coerentemente con la scelta dell’edificio principale che domina la scena
dell’opera, a metà strada fra la prigione e l’officina ottocentesca
dove i lavoratori agivano in una condizione molto simile a quella dei
prigionieri, abbia voluto continuare la metafora anche in questa scena.
Questo non mi ha convinto. Il preludio all’aria di Florestano invita
all’immobilità, non all’azione. Il buio che richiama non è solo il
buio di un carcere, ma è un buio interiore, è il contraltare efficace
del sole che inonderà la scena nel finale dell’ultimo atto. I
movimenti di quei minatori-carcerieri mi sono sembrati estranei, non
necessari, distraenti.
Il tenore ha cantato la sua aria molto bene, con un profondo dolore,
senza retorica, ma con molta convinzione, servito da una voce efficace.
Un problema, già presente nell’edizione del 1999 è stata
l’introduzione prima del finale, dopo il duetto della Namenlose Freude,
del Leonora 3. Nel Fidelio, così come ci è stato tramandato, questo
inserimento non esiste. E molti direttori non lo fanno. Muti ha scelto
di farlo. Non si tratta certamente di una scelta filologica, e già mi
immagino le critiche degli antimutiani doc, che lo accusano di “fare
della filologia di comodo”, come appunto l’hanno accusato per
l’inserimento del finale wagneriano nell’Iphigenie en Aulide.
Queste mi sembrano un po’ discussioni di lana caprina. Quello che io mi
chiedo è se drammaturgicamente, l’inserimento del Leonora 3 ha un senso
o meno.
A differenza del finale wagneriano dell’Iphigenie, che non mi piacque a
causa della evidente, troppo evidente frattura stilistica, qui questo
inserimento mi è sembrato (come già rilevai nel mio commento
all’edizione del 1999) una scelta drammaturgicamente efficace. È una
specie di sipario sonoro che separa l’ambiente claustrofobico, che
durante il duetto si è andato dissolvendo, al luminoso finale. Ha la
funzione di una specie di ricapitolazione che, evitando un brusco
cambiamento di clima che potrebbe sembrare un po’ artificioso, ci
introduce alla luce come compimento delle nostre speranze. La musica è
talmente bella, talmente inserita nel clima dell’opera, che questa
operazione, secondo me, è perfettamente riuscita. E ancora una volta
occorre dare atto della efficacia delle direzione di Muti.
Un’ultima annotazione sul finale. I temi del coro, all’inizio, e più
ancora alla fine, proprio alla conclusione sono bellissimi,
entusiasmanti. Non è possibile, non pensare al IV movimento della Nona
sinfonia. Questo finale lo si può immaginare come il pilastro di inizio
di un lungo ponte che attraversando tutta la vita del compositore va ad
appoggiarsi e concludersi sull’altro pilastro, quello dell’inno alla
Gioia. E questo è uno dei tanti elementi per cui, fin dalla mia
adolescenza, io non solo ho ammirato ma ho amato, e amo ancora questo
grande uomo, oltre che grande compositore.
Quello che mi ha colpito nell’atteggiamento del pubblico è stato un fatto singolare: pochi applausi, quasi subito repressi e zittiti dopo ogni aria. Mi pare che il pubblico abbia capito che il Fidelio, anche se è un’opera a numeri, un Singspiel, è tutto tranne che una manifestazione di bel canto. L’atmosfera, creata dalla musica si riverbera e vibra ancora durante le scene parlate. Applaudire alla fine di ogni numero (come si fa per le opere di “bel canto”) rischia di interrompere questo riverbero, e di distrarre l’attenzione. Molto bene quindi evitare gli applausi e riservarli alla fine dell’atto, come è stato fatto con grande partecipazione.