I DUE FOSCARI, al Teatro degli Arcimboldi

 

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In occasione delle rappresentazione al teatro degli Arcimboldi, si è 
parlato molto di quest’opera, officiandone una valorizzazione che a me, 
francamente, è sembrata eccessiva. 
Se si analizza l’opera drammaturgicamente ci si rende conto che la 
struttura è inconsistente. Un fatto che avviene all’inizio dell’opera, 
la condanna all’esilio del figlio del doge Francesco Foscari, porta ad 
una successione di lamenti, vuoi disperati, vuoi di ribellione, vuoi 
rassegnati che di fatto occupano quasi tutta l’opera. Non si rileva 
alcuna arcata drammaturgica. Dall’evento “scatenante” subito all’inizio 
del primo atto, si passa, senza che accada più nulla se non la sequela 
di lamentazioni, all’unico vero climax alla fine del terzo atto, quando 
Francesco Foscari si trova bersagliato in pochissimo tempo (nell’opera 
una decina di minuti) dalla notizia dell’innocenza del figlio, 
dall’annunzio della di lui morte e infine dalla sua esautorazione che 
culmina con la sua morte.

Secondo molti commentatori, questa dovrebbe essere un’opera che 
intreccia gli eventi politici ai drammi personali. E viene considerata 
un predecessore di opere come il Simon Boccanegra e il Don Carlos. A me 
sembra che di eventi politici nei Due Foscari proprio non ve ne siano. 
Tuttalpiù si può parlare di un intrigo di corte di cui è vittima 
Jacopo. Manca infatti qualsiasi accenno ai veri problemi politici di 
Venezia nella prima metà del Quattrocento, che consistevano soprattutto 
nello scontro fra due fazioni: quella prudente e volta soprattutto a 
oriente e ai lucrosi commerci, che era ispirata alla politica del doge 
Mocenigo, predecessore del Foscari; e quella “guerrafondaia” (diremmo 
oggi) che voleva Venezia impegnata ad espandersi verso la terraferma e 
che era sostenuta dal Foscari. E la condanna di Jacopo è stato uno 
degli strumenti utilizzati dalla fazione avversaria per isolare 
Francesco e quindi esautorarlo. Mancando accenni, anche minimi a questi 
eventi, tutto finisce per sembrare una banale vendetta di famiglia, che 
con la politica c’entra poco o nulla. 
Di ben altro spessore è l’irruzione della politica, ad esempio, nel 
Simon Boccanegra, dove appare chiaro lo scontro in atto fra Patrizi e 
Plebei, dove la guerra contro Venezia ha indotto Verdi addirittura ad 
introdurre un testo del Petrarca che invocava la pace fra le due grandi 
potenze marinare italiane. O, ancor più nel Don Carlos con le vicende 
della repressione nelle Fiandre, il rapporto fra Stato e Chiesa, e 
quant’altro.

I personaggi ci si presentano con una tinta molto uniforme. Jacopo è 
sempre in preda alla disperazione. Le sue arie sono lamento puro. 
Neppure la cabaletta del primo atto riesce a vitalizzarlo un po’; e 
neppure le visioni che ha in carcere, francamente di nessun valore 
drammaturgico. Personaggio sostanzialmente debole, passivo. Lucrezia non 
si stanca di cercare di salvarlo, e mostra una certa aggressività che 
tuttavia gira su se stessa senza puntare ad un approdo. Francesco è 
l’incarnazione del dolore, che tuttavia subisce senza reazione 
apparente, tranne l’ultimo, momentaneo atto si ribellione alla fine, 
prima di cedere definitivamente l’anello.

La musica a me sembra quella del Verdi giovanile: cavatine, cabalette, 
cori, i concertati di fine atto. Cose anche gradevoli, ma direi 
abbastanza lontano dalle vette che il compositore raggiungerà alcuni 
anni dopo. Di particolarmente bello, secondo me vanno citati il duetto 
viola violoncello che costituisce l’inizio del secondo atto, la prima 
cavatina di Lucrezia, e la barcarola del terzo atto. 
Molti studiosi sottolineano che in questa opera Verdi mostra un 
progresso nell’uso dell’orchestra, con colori più raffinati. La mia 
conoscenza dell’evoluzione dello stile verdiano non mi consente di 
esprimere un parere, Mentre invece appare abbastanza esplicito l’uso dei 
”leitmotiv”, ovvero di motivi collegati ai personaggi. Se ne citano 
quattro: quello di Jacopo, suonato dal flauto, che si avverte subito 
nell’introduzione orchestrale, e che precede quasi sempre l’entrata in 
scena del personaggio. È un motivo molto dolente, appropriato allo 
stato d’animo del protagonista. Due appartengono a Lucrezia: dei quali 
uno potrebbe essere definito, alla Debussy, un “biglietto da visita”. È 
quello che precede invariabilmente il suo ingresso in scena. Ricorda, 
molto alla lontana il tema di Freia del Ring. L’altro è il bellissimo 
tema che si avverte nel preludio e che sarà ripreso nella cavatina “Tu 
al cui sguardo onnipossente“. Il quarto “leitmotiv” è quello di 
Francesco, che si sente solo due volte, quando Francesco si trova solo 
nel suo studio, nel primo e nel terzo atto. È un motivo suonato dalle 
viole e che trovo molto bello.

L’esecuzione agli Arcimboldi. Per darne un giudizio occorre poter fare 
un confronto con altre esecuzioni. nella mia memoria ci sono quella 
precedente della Scala diretta da Gavazzeni, e quella del San Carlo di 
Napoli, diretta da Santi. Ho trovato l’attuale edizione migliore su 
alcuni aspetti, peggiore sotto altri.

La regia è forse il punto più scadente di questa esecuzione. I 
personaggi si muovono sulla scena senza alcun senso apparente: le loro 
gestualità sono di assoluta banalità. Laddove vengono espressi 
sentimenti di dolore, di affetto, i personaggi si muovono come se 
stessero cantando l’elenco telefonico. In conclusione, regia 
inesistente, e, a parte Nucci, incapacità dei singoli personaggi a 
darsi un contegno credibile sulla scena. In più vanno citati personaggi 
assolutamente inutili, che dovrebbero impersonare dei fantasmi o degli 
spettri che di quando in quando si intravedono nella parte più buia 
delle scene. 
Le scene invece le ho trovate sobrie, ma eleganti. Non ci hanno fatto 
sopportare l’ennesima visione di finestre a bifore o di campanili di San 
Marco, ma lo scenografo si è soffermato di più sui colori degli 
ambienti (verde scuro le pareti, d’oro finemente lavorato gli stipiti e 
le grandi porte). La presenza di grate di grandi dimensioni dava il 
senso della prigione e induceva una certo senso di claustrofobia. Per i 
resto gli arredi scenici sono pochissimi: qualche sedia, il trono ducale 
al massimo. 
Nella scena del carnevale e della barcarola, sempre su un impianto 
scenico di pareti verdi e porte auree, sulla sfondo si intravedono 
passare delle gondole: ma con molta discrezione. Il coro canta la 
barcarola seduto sulla scena, un po’ come si è visto nel Nabucco 
scaligero. Direi senz’altro più gradevole che non il farlo accompagnare 
da movimenti danzati, come spesso avviene.

I costumi pure sono molto belli. In broccato d’oro quello del duca 
(quale si vede nelle iconografie dell’epoca); manti di un color viola 
cangiante quelli del Consiglio; abiti sobri ma eleganti quelli di 
Lucrezia. 
Alla fine occorre dire che si avvertiva di più Venezia in queste 
piccole cose che non nelle sempiterne esibizioni della Venezia delle 
cartoline illustrate.

La direzione orchestrale. È quella ben nota di Muti, che molti 
criticano, ma che ha, secondo me il pregio di movimentare le vicende, 
accentuando le dinamiche orchestrali e dilatando o restringendo i tempi 
a seconda delle necessità. I tempi delle cabalette sono piuttosto 
rapidi, ma occorre dire che i cantanti non li hanno sofferti. 
Quello che tuttavia, secondo me, non è riuscito neppure a Muti, è il 
rendere quest’opera un po’ più interessante.

I cantanti. Mi è piaciuta la Theodossiou, anche se negli acuti qualche 
volta ha sfiorato lo strillo. Ha saputo dar voce ad una donna mai 
rassegnata, sempre alla ricerca di una soluzione che salvi il marito, 
con notevole aggressività e grinta. Di Nucci non è il caso di parlare. 
La sua prestazione è quella di alto livello che ormai gli si riconosce 
un po’ dovunque. Il tenore. Quello che mi è piaciuto di più in questo 
Casanova è che ha sfoderato un timbro e un modo di cantare che dessero 
a Jacopo un minimo di virilità. Se penso a Cupido e a Scola, quali ho 
sentito nelle esecuzioni che ho citato sopra, direi che il loro canto, 
più improntato sulla sofferenza e sulla disperazione, finiva per 
ridurre il povero Jacopo a una larva. Casanova ha cercato di dargli un 
tocco di virilità, anche se magari i suoi acuti non hanno certo la 
limpidezza degli altri due. 


Molto bravo, come sempre il coro scaligero.

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