LA PICCOLA VOLPE ASTUTA, al teatro degli Arcimboldi

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Conoscevo quest’opera (per me un capolavoro) da un paio di ascolti 
radiofonici (Venezia, con la direzione di Pesko nel 1999, e Théâtre des Champs Elysées con la direzione di Darlington nel 2002) e dalla visione 
del DVD dal Théâtre du Châtelet (1995) diretto da Mackerras con la regia 
di Hytner. È naturale che fossi molto ansioso di vederne la 
rappresentazione teatrale, sotto la direzione di Andrew Davis (un ottimo 
conoscitore di Janáček) e con la regia di David Poutney, considerato da 
molti uno dei più geniali e intelligenti registi inglesi.

Come è noto l’opera è ispirata a una serie di strip di Stanislaw Lolek 
pubblicati su un quotidiano locale e che hanno per protagonista proprio una volpe. Janáček ne ha tratto alcune scene, collegandole in modo da costruire un 
racconto, che tuttavia conserva la forma episodica che l’ha generato. Quella che ne è risultata è una fiaba dall’apparenza molto semplice, 
ma in reltà di una costruzione molto complessa, nella quale si fondono simbolismo, atmosfere di sogno, un sottile profumo di erotismo, richiami al significato della natura ed alla sua valenza per l’uomo, riflessioni sul tempo e sul suo ineluttabile trascorrere immerse in un sentimento di 
malinconia nostalgica, e il tutto avvolto da un lieve e divertito senso 
di ironia.

La trama è molto semplice: un guardiacaccia, durante una sua escursione 
nella foresta trova un cucciolo di volpe e lo porta a casa per far 
divertire i figli. Ma la volpe è volpe, non è un cane (come essa 
stessa orgogliosamente afferma), e quindi dopo aver combinato un po’ di 
guai, scappa nella foresta dove con un astuto sotterfugio si 
impadronisce delle tana di un tasso; incontra un volpe maschio che la 
corteggia e col quale poi si sposa. Intanto all’osteria, incontriamo il 
guardiacaccia con alcuni suoi amici, un prete e un maestro di scuola 
(siamo nel cuore di un villaggio con le sue tradizioni). Tutti e tre 
bevono e giocano a carte; un po’ brilli si prendono in giro e scherzano 
sugli amori infelici di uno di loro, sulla volpe fuggita al 
guardiacaccia, poi se ne vanno a casa. La volpe li spia e si diverte 
alle loro spalle. Uno di loro, il maestro, vede un girasole mosso dalla 
volpe, lo scambia per la sua donna, e le fa una dichiarazione d’amore. 
Il prete rievoca un suo amore passato. Il guardiacaccia insegue ancora 
il mito della sua volpe fuggita. Ben presto nasceranno i volpacchiotti 
che i genitori istruiranno sui pericoli della foresta. Tutto procede in 
una specie di “normalità” che però sarà destinata ad essere travolta 
dal tempo che passa. Nel terzo atto il bracconiere non solo ruba la 
moglie al povero maestro, ma ruba anche la volpe al guardiacaccia 
uccidendola con un colpo di fucile e facendone un manicotto per la futura moglie. E nell’osteria i tra amiconi non si ritroveranno più a 
passare allegre serate. Il tempo li ha allontanati, incupiti, 
intristiti. Resterà solo il rimpianto. Il guardiacaccia tornerà nel 
bosco, come all’inizio. Ma anche il bosco è cambiato. La volpe che vede correre fra gli alberi non è Bistrouska, ma forse uno dei suoi figli. E la rana che come all’inizio gli salta sulla faccia non è più la 
stessa, ma sua nipote, come essa si premura di informare l’uomo nella 
divertente ma melanconica conclusione dell’opera. È questo l’unico episodio dell’opera in cui esseri umani e animali intrattengono un 
dialogo. Altrimenti gli animali fanno riflessione sugli umani e gli umani 
sugli animali, ma senza mai entrare in contatto diretto. Ciò 
simboleggia proprio la fine del ciclo, dove la vita degli uomini e la 
vita della natura finiscono per incontrarsi. Il ciclo poi ricomincia, 
nella malinconia di chi del ciclo può percorrerne solo un arco, sia 
esso breve, come per gli animali della foresta, sia esso più lungo come 
per l’uomo.

L’impianto drammaturgico quindi è sostanzialmente ciclico. E ciò 
genera i diversi episodi, gli stati d’animo, le ambiguità delle 
situazioni e dei personaggi. Ad esempio, Bistrouska è la piccola volpe, 
ma forse è qualche cosa di più: nel primo atto essa fa un sogno, che viene raccontato da una musica dolcissima e piena di nostalgia: e in questo sogno essa assume l’aspetto di una bellissima donna che danza 
lievemente; le sofferenze d’amore del maestro durante la partita a carte sono avvicinate alla delusione del guardiacaccia per la fuga della 
volpe; il maestro fa una dichiarazione d’amore a un girasole, ma di 
fatto la fa a Bistrouska che vi è nascosta dietro; Bistrouska spia con 
attenzione il prete che rievoca una sua avventura amorosa del passato, e 
sembra quasi che la volpe incarni la fanciulla amata da lui. Nessuna di 
queste figure femminili compare nell’opera, ma in tutte si intravede il 
personaggio della volpe. Il corteggiamento della volpe maschio viene 
condotto con una grandissima abilità da Janáček, che lo fa apparire 
come qualche cosa che partecipa sia del corteggiamento fra due animali 
(grande semplicità di rapporti), sia del corteggiamento fra esseri 
umani, nel quale la volpe mette in atto tutte le astuzie che potrebbero 
essere proprie della sua razza, ma che sono tipiche anche della donna 
(come l’apparente concedersi per subito dopo ritrarsi, e fare in modo 
che sia l’uomo a supplicare per ottenere ciò che nel suo intimo la 
donna ha già ampiamente concesso).

Un filone di ambiguità di rapporti, di situazioni straordinariamente 
ricco, e che genera a sua volta simboli, come ad esempio la foresta e la 
sua popolazione che simboleggia la natura in tutte le sue 
manifestazioni, compresi i cicli stagionali, i cicli vitali, etc.; o, 
altro esempio, il bracconiere, preso un po’ a simbolo degli eventi 
esteriori che interferiscono con il tempo che passa e porta a 
cambiamenti nelle nostre persone e nei nostri rapporti. O ancora 
Bistrouska presa come il simbolo della libertà: “La foresta era più 
oscura della notte” confessa alla volpe maschio, “ma mi sentivo 
libera!”. E il tutto avviene sotto la luce di un sorriso ammiccante, di 
una lieve ironia, ma anche di una velata malinconia.

E la musica di Janáček in questo è magistrale. 
Secondo lo stile proprio di Janáček il canto è praticamente un 
declamato immerso in un tessuto orchestrale che commenta, descrive o 
trasmette le emozioni degli eventi o dei personaggi. Solo in qualche 
caso Janáček ricorre a un canto melodico, con il sapore del canto 
popolare. E questo avviene ad esempio nel secondo atto nella canzone del 
guardiacaccia “Byvalo, byvalo” (Tanto tempo fa), oppure nel terzo nella 
canzone del bracconiere “Quand’era vagabondo“, oppure ancora nella 
cantilena infantile dei volpacchiotti figli di Bystrouska “Una volpe 
corre per i boschi“.

La musica orchestrale si basa, come spesso avviene in Janáček, su temi 
costituiti da piccole cellule che poi si rendono indipendenti per dar luogo 
a degli ostinati, oppure, aggregandosi con altre cellule tematiche, per 
dar luogo a temi nuovi. Questo procedimento complesso, mentre fornisce 
caratterizzazioni tematiche alle diverse situazioni o ai diversi 
personaggi o ai diversi stati d’animo, garantisce una forte unità di 
stile a tutta l’opera. 
Anche le forme musicali sono molto complesse: la base è quasi sempre 
tonale, ma spesso e volentieri Janáček si avvale delle scale modali o 
della scala a toni interi o della scala pentatonica per conferire sapori 
particolari a determinati episodi. Anche i colori orchestrali sono molto 
fluidi e cangianti, e il timbro dei diversi strumenti caratterizza i 
momenti di poesia nella parte “melodica” (prevalentemente archi, flauti) 
mentre tende ad esprimere ironia negli ostinati (prevalentemente oboe, 
fagotto, percussioni). Ad esempio, durante il corteggiamento del maestro 
al girasole, la musica degli archi è dolcissima, tenera, esprime 
l’amore, ma un ostinato del fagotto nel basso riveste il tutto di una 
sorridente ironia. 
Naturalmente questa schematica osservazione soffre di infinite smentite, 
tanta è la varietà delle soluzioni adottate.

Ciò è avvertibile soprattutto negli interludi destinati a collegare le 
diverse scene, come la musica descrittiva della vita della foresta nel 
preludio, o la musica da balletto che accompagna il “crescere delle 
volpe“, o la musica sognante che accompagna il sonno di Bistrouska che 
si immagina di essere una donna, o la marcetta ironica che prelude alla 
scena dell’osteria; oppure lo squarcio lirico, quasi pucciniano, del 
finale del duetto d’amore, in cui Bistrouska risponde alla volpe maschio 
con due “Chco” (Voglio), commentato dapprima da violini che suonano in 
flautato, e poi dal suono dolce e carezzevole del flauto. La scena, dopo 
un passaggio ironico di pettegoli commenti da parte della civetta, si 
conclude col matrimonio e con un canto festoso senza parole degli 
animali della foresta che portano doni ai due giovani sposi. 
Personalmente tutto quell’episodio l’ho trovato molto commuovente. 
Sarebbe lungo, anche se affascinante, soffermarsi sulle miriade di 
episodi musicali che hanno la loro controparte negli episodi scenici, 
con tutte le loro sfaccettature liriche, drammatiche, ironiche, giocose, 
etc., che rendono quest’opera un vero capolavoro.

La rappresentazione. 
Poutney ha voluto prima di tutto sottolineare la ciclicità dell’opera, 
scandendo il passare del tempo con la varietà delle stagioni. 
La scena è unica: una plaga di foresta rappresentata da un terreno 
ondulato con sullo sfondo una cresta montuosa stilizzata. Gli alberi 
sono simbolicamente rappresentati solo dalle loro fronde sospese, e 
popolate da personaggi che rappresentano gli uccelli e che si 
intravedono fra i rami e le foglie. Col passare del tempo il paesaggio 
così definito cambia secondo le stagioni: prato verde e fronde ricche 
di foglie in primavera e estate, tappeto coperto di neve e rami spogli 
in inverno, tonalità bruna nella stagione autunnale. Questa scansione, 
anche se non esplicitamente indicata nel libretto, si sposa bene con 
l’evolversi degli episodi accentuandone il sapore di “racconto” e quindi 
del trascorrere del tempo. Le scene “interne” (cortile del 
guardiacaccia, osteria) si materializzano con una apertura a vista 
dell’area della foresta, che delimita un piccolo spazio opportunamente 
arredato, nel quale si svolgono gli episodi.

I personaggi umani vestono costumi “normali”. Gli animali hanno costumi 
che simboleggiano la specie cui appartengono, come un po’ in tutte le 
rappresentazioni di cui ho conoscenza, ma in modo meno rigido. Ad 
esempio Bistrouska non ha le canoniche orecchie a punta: indossa una 
veste di color rosso arancio, piuttosto attillata e corta, e il suo pelo 
è simboleggiato da una specie di “boa” dello stesso colore che si 
avvolge attorno al collo, o sulle braccia. Negli episodi invernali la 
vediamo coperta da una lunga pelliccia, sempre dello stesso colore. 
Analogamente la volpe maschio la vediamo vestita con i calzoni e un 
berretto in testa, anch’essi dello stesso colore rosso-arancio. Il cane 
è rappresentato da un personaggio goffo ricoperto da una specie di 
pelliccia e sempre in una postura “a gattoni”, mentre il tasso appare un 
personaggio impettito, vestito in modo che ricordi una specie di uomo 
d’affari. Gli altri animali della foresta portano vestiti variopinti che 
vorrebbero descrivere l’aspetto della specie di appartenenza. In questo 
mi pare che la rappresentazione sia allineata con altre di cui sono a 
conoscenza.

Anche i movimenti scenici sono abbastanza tradizionali. Da notare 
tuttavia la bravura di Rosemarie Joshua, nel ruolo di Bistrfouska, che 
corre, si agita, salta, si rotola con grande agilità, e sfodera una 
recitazione aggressiva, tutta da guardare e da godere. Gli altri 
movimenti scenici si collocano nel filone tradizionale, con, ad esempio, 
il barcollamento del maestro che esce ubriaco dall’osteria e si ferma a 
corteggiare un girasole, o i movimenti falsamente disinvolti del volpe 
maschio, o il comportamento goffo del bracconiere, etc.

La direzione orchestrale ha avuto il pregio di essere molto chiara e di 
mettere ben in evidenza tutti gli aspetti complessi e ricchi di 
significato dei diversi episodi. Occorre dire che Andrew Davis è un 
profondo conoscitore di Janáček, avendo diretto per il festival di Glyndebourne le sue opere principali. 
Dal punto di vista del canto, come si è detto, si tratta quasi sempre 
di un declamato. Tutti gli interpreti svolgono con sufficiente bravura 
la loro parte, ma in particolare mi è piaciuto Alan Opie nella parte del 
guardiacaccia, che ha dato al proprio personaggio una veste grintosa, ma 
velata di malinconia nella penultima scena, nell’osteria dove ormai non 
si ritrova più la allegra compagnia di un tempo e si respira un’aria di 
nostalgia per un tempo passato.

In sostanza questa rappresentazione mi ha avvinto, come mi sembra che 
sia avvenuto per la maggio parte del pubblico presente, che ha 
applaudito gli interpreti con grande e sincero entusiasmo.

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