ELLIS ISLAND, di Giovanni Solima
Domenica scorsa la RAI ha trasmesso in differita quest’opera di Giovanni Sollima, rappresentata in prima esecuzione assoluta il 4 ottobre 2002 al Teatro Massimo di Palermo, da cui era stata commissionata.
Oltre che al fatto di essere un’opera contemporanea, di un compositore di cui ignoravo (e continua ad ignorare) tutto, tranne quel poco che si puo’ leggere su Internet al sito della Sonzogno, quest’opera mi ha attirato per l’argomento.
Quello dell’emigrazione, della convivenza di diverse etnie e culture,
dell’integrazione, del rispetto delle minoranze, è un argomento molto
frequentato oltre che dai notiziari e dagli scrittori di sociologia e
scienze affini, anche dagli scrittori di narrativa. Si tratta di un
argomento di grande attualità, soprattutto in un mondo che tende alla
globalizzazione dell’economia, e nel quale scontri e incontri etnici e
culturali sono all’ordine del giorno. Proprio da poco ho terminato di
leggere un libro di Melania Mazzucco (vincitrice del premio Strega
2003), Vita, che è una bella e interessante ricostruzione delle
vicende emigratorie delle radici della sua famiglia, con belle pagine
che descrivono le torturanti e infinite attese, le paure, le umiliazioni
degli emigranti italiani al posto di confine di Ellis Island. Altri
incontri-scontrici etnici e culturali, ad esempio, feriscono l’attuale
repubblica del Sud-Africa dopo la fine dell’apartheid, come
magistralmente porta alla luce della nostra ignoranza l’attuale premio
Nobel della letteratura John Maxwell Coetzee nei suoi libri come Vergogna. O ancora, le vicende della convivenza fra palestinesi e
israeliani appaiono con cruda ma efficace evidenza, nei libri di Amoz Oz
o di Morderai Richler.
Tutto questo ci porta anche alla cronaca quotidiana che viviamo qui in
Italia, come le tragiche vicende di migliaia e migliaia di immigranti
clandestini che con grande frequenza sbarcano a Lampedusa, sulle coste
siciliane, o periscono in mare.
Insomma l’opera di Sollima si colloca in un contesto di grandissimo
interesse che ha coinvolto grandi nomi della narrativa, e nel quale,
direttamente o indirettamente, anche la nostra vita quotidiana e ancor
più il nostro futuro, sono interessati.
Ellis Island: è l’isola davanti a New York, poco lontana dalla Statua
della Libertà, dove gli emigranti, e fra loro numerosi anche gli
emigranti italiani, sbarcavano dai piroscafi che li trasportavano e
venivano controllati, visitati, giudicati da funzionari che avevano
l’autorità di ammetterli nel nuovo mondo, o di respingerli e di
rimandarli in patria. Il tutto avveniva in una babele di lingue, di
storie individuali e collettive, di necessità, di bisogni, di speranze,
di delusioni, di sofferenze, di ricordi, di tutto quello che puo’ essere
il patrimonio di una persona che abbandona, forse per sempre, la sua
vita del passato, quella a lui familiare, per cominciarne una nuova,
ignota.
L’opera vuole evocare questo clima, questi stati d’animo, queste vicende
individuali ma nello stesso tempo di massa. All’inizio il librettista,
Robero Alajmo e Sollima pensavano ad un’opera tradizionale, con una
storia, una vicenda, magari esemplare, con un antefatto uno sviluppo e
una conclusione. Ma le loro ricerche, le testimonianze che riuscivano a
raccogliere, portavano tutte in una sola direzione: ogni persona, ogni
emigrante aveva la sua storia; ma là, nel collo di bottiglia di Ellis
Island, tutte le storie finivano per sovrapporsi, per assomigliarsi, per
identificarsi e per essere alla fine solo una grande storia scritta da
migliaia e migliaia di mani.
Di qui l’idea di fare un’opera senza una trama, ma di carattere
evocativo. I personaggi sono il medico (quello che se hai una benché
piccola malattia ti rimanda a casa) e il funzionario, che ti fa le 29
domande di rito, fra cui anche se hai l’intenzione di rovesciare il
governo con la forza, o di uccidere il Presidente degli Stati Uniti.
E davanti a loro la massa, il coro, degli emigranti, dal quale affiorano
come lampi di luce, qua e là singoli individui, per raccontare una
storia che, tuttavia sappiamo, è quella di tutti: come Felicita, John
Martin e qualche altro.
E poi ci sono gli appelli, brevi elenchi di nomi, che ne comprendono
migliaia di altri. E le regole. E i numeri: i morti durante il viaggio,
i morti di fame, i morti di colera, i naufraghi… E gli interrogatori,
e le sentenze, nella burocratica indifferenza dei funzionari, ormai
abituati e immuni alle storie di sofferenza e di dolore. E i cambiamenti
di nome, come ad esempio il nome acquisito di Newman, uomo nuovo,
simbolo del cambiamento di identità e di vita che li aspetta una volta
ammessi e sbarcati sul continente.
Il secondo atto, molto più breve, pur riprendendo il tema
dell’emigrazione, crea un collegamento fra i drammi dell’emigrazione
dell’inizio del secolo e le tensioni di oggi, soprattutto fra le
minoranze perseguitate, come i curdi in Turchia o in Iraq sotto le
grinfie e le torture di Saddam Hussein, la loro disperazione la loro
diaspora o la loro ricerca, a volte anche attraverso l’emigrazione
clandestina e i suoi orrori, di un approdo più sicuro.
Il testo si avvale dell’apporto letterario di Roberto Alajmo, ma anche
di frammenti o brani di altri autori.
L’inizio di ogni atto è preceduto da una lettura (senza musica) di una
durata di 3-4 minuti di brani dal libro La Spartenza di Tommaso
Bordonaro, un emigrante siciliano che scrive i suoi ricordi in una
lingua italiana ibrida e sgrammaticata, ma enormemente efficace. Vi si
trovano poi testimonianze trascritte di vari emigrati; i versi finali
della poesia The New Collossus di Emma Lazarus, che si trova scolpita
sulla Statua della Libertà e che accoglie con toccanti e consolatorie
parole gli emigranti; poesie di Hevi Dilara (poeta curda) e del poeta
americano William Carlos Williams.
Il libretto è scritto in italiano e in inglese (le poesie sono in
lingua originale) per dare l’idea della babele delle lingue e delle
enorme difficoltà di comunicazione fra emigranti e funzionari, e fra
gli stessi emigranti.
La musica: l’impianto musicale riflette il clima variegato degli stati
d’animo, delle vicende, delle storie degli emigranti.
È evidentemente complicato e tutto sommato inutile tentarne un’analisi,
tanto più che io non mi sento certo in grado.
Vi sono canzoni in diverso stile cantate da Felicita (un’emigrante
simbolica), interpretate da Elisa. Altre canzoni, come quella di
Francesco Sanfilippo interrogato da una giornalista, hanno un sapore di
canzone popolare siciliana. La poesia di Hevi Dilara (nostalgia) è
cantata e accompagnata con il sapore dei canti popolari arabi.
I dialoghi fra i funzionari e gli interrogatori hanno un certo impulso
minimalista, sia nel canto sia soprattutto nell’accompagnamento
orchestrale formato da piccole cellule tematiche che si ripetono con
insistenza e intensità. A volte questa espressione minimalista lo si
trova in brevi intermezzi orchestrali.
I cori presentano caratteristiche molto differenti: canti lenti, di
carattere quasi chiesastico, come litanie, quando viene descritto
l’abbandono della terra d’origine. Oppure esibiscono con carattere più
eccitato, con incrocio e intersezione di linee vocali, e accompagnamento
orchestrale ostinato, per esempio come risposta alle sentenze dei
funzionari.
Un coro molto complesso, con accompagnamento orchestrale rafforzato da
interventi a volte violenti delle percussioni, direi molto bello, è
quello del secondo atto, “Il viaggio”, nel quale si rievoca la disperata
diaspora di migliaia di emigranti di razze diverse, di diversa
provenienza, ma tutte segnate dalla fame, dal dolore, dalla disperazione
e da un destino ignoto, a volte anche atroce.
Vi sono anche squarci lirici, come un bellissimo assolo di violoncello
(elettrico) suonato dallo stesso Sollima; oppure il canto del medico che
elenca la malattie che condizionano il rifiuto, e che è accompagnato
dal coro disperato degli emigranti; o il canto di un emigrante
(anch’esso simbolico) di John Martin (o Giovanni Martino, come in
realtà si chiamerebbe) che sogna l’America vista nei film, con i cow
boys, i pellirosse, o forse, immagina o ricorda la realtà di una vita
dura e di rischi mortali che lo attende.
La varietà di forme e di stili, che ho cercato rozzamente di elencare,
tuttavia non determina frammentazione. L’opera corre fluidamente e le
rievocazioni nei differenti stili e nelle differenti forme, coinvolgono
nell’ascolto.
Dell’esecuzione non posso dire altro che quello che ho sentito è
convincente.
La direzione orchestrale è quello che è, e, credo, in presenza dello
stesso Sollima, corretta e appropriata.
Elisa non è una cantante lirica, è una cantante di musica “leggera”,
ma è efficace e canta con sentimento. I cantanti maschili (due tenori e
un baritono) non mi sembra che abbiano parti di grandissima difficoltà
e svolgono il loro ruolo in modo accettabile.
Nulla posso ovviamente dire della messa in scena, dato che il mio è
stato solo un ascolto radiofonico.