IL PRIGIONIERO, al Maggio Musicale Fiorentino
Si tratta di un’opera più breve, ma molto più densa (e direi anche più bella, anche se più difficile) di Volo di notte. Un po’ più di 10 anni separano la composizione dei due lavori, e indubbiamente il tempo trascorso ha permesso a Dallapiccola di maturare in modo pressoché perfetto l’uso del linguaggio seriale.
Il prigioniero può essere infatti definita un’opera seriale, caratterizzata dalla presenza di tre serie (la serie della speranza, quella della libertà e quella della preghiera) oltre ad una cellula motivica centrale sulla parola “Fratello” che nelle analisi viene definita l’elemento conduttore o unificante dell’opera.
Il libretto, come in Volo di notte, ha una radice letteraria. Anzi, per la verità più di una. La trama si basa sul breve racconto di Villiers de l’Isle-Adam La Torture par l’esperance; altre fonti sono La Rose de l’Infante di Victor Hugo; La Legenda et les aventures heroiques, joyeuses et glorieuses d’Ulenspiegel et de Lamme Goedzak au pays de Flandres et ailleurs di Charles de Coster; e Poesie per fanciulli di Lisa Pevarello.
L’azione si svolge a Saragoza durante il regno di Filippo II. Un prigioniero dell’Inquisizione, combattente per la libertà della Fiandre, rinchiuso nella cella, nel suo ultimo colloquio con la madre ricorda i giorni dell’infanzia e della libertà, ma anche le torture subite, e prega Dio di aiutarlo. Dopo l’uscita della madre entra il carceriere, che infonde nel prigioniero la speranza di una prossima libertà: nelle Fiandre divampa la rivolta al suono della Campana di Gand. Il prigioniero esulta. All’uscita del carceriere, una tenue luce che filtra dalla porta, convince il prigioniero a tentare l’uscita. Lungo il buio corridoio egli vede passare due frati dai quali apprende che l’indomani i prigionieri saranno giustiziati. Giunto all’esterno, quando la libertà pare finalmente raggiunta, si trova davanti al carceriere che non è altro che il Grande Inquisitore. Questi con dolcezza lo prende per il braccio e lo conduce al rogo: la ingannevole speranza è stata l’ultima e la più atroce delle torture. L’ultima parola del prigioniero è l’interrogativo: Libertà?
Il testo del libretto è di Dallapiccola. La qualità letteraria non è eccelsa, anche se è migliore di quella di Volo di notte; l’architettura drammaturgica è rigorosa. L’opera si compone di un prologo e quattro scene. Prologo (sogno della madre) e prima scena (ultimo colloquio della madre col figlio prigioniero) costituiscono l’arco ascendente che culmina nel primo intermezzo corale. La seconda scena, nella quale il carceriere infonde la speranza nel prigioniero è l’acme. Il secondo intermezzo corale introduce la terza (il percorso del lungo corridoio del carcere) e la quarta scena (l’uscita e l’incontro col Grande Inquisitore), che costituiscono l’arco discendente e l’epilogo.
La musica è densissima e prevalentemente contrappuntistica. Le tre serie, nelle tradizionali quattro forme (diretta, inversa, retrograda e retrograda inversa) e la cellula tematica “Fratello” si intrecciano in continuazione alternando i momenti della speranza della libertà con quello della preghiera e della dolcezza del rapporto umano (tuttavia nella circostanza falso e ingannatore, come chiaramente dimostra l’ultima enunciazione della parola e della cellula tematica da parte del Grande Inquisitore che tronca le speranze di libertà del prigioniero).
Le serie sono di difficile memorizzazione (anche se Dallapiccola cerca di dare alla serie un contenuto melodico-lirico) e anche con la massima attenzione mi è risultato difficile seguire le linee del contrappunto. Linee contrappuntistiche più semplici da seguire, con le caratteristiche del fugato si apprezzano nei due cori intermezzo, nella scrittura a canone che conclude alcune strofe del colloquio con la madre e del racconto del carceriere, e nei ricercari che costituiscono l’essenza musicale della terza scena.
Nell’opera vi sono alcune forme che sarebbe improprio chiamare “chiuse”, ma che comunque hanno una loro identità. Esse sono la Ballata iniziale in due strofe con la quale la madre racconta il sogno (alla fine di un buio corridoio gli appare una figura, che successivamente si rivela essere Filippo II, e poi si trasforma nella immagine della morte – Il testo di questa ballata fa riferimento al poema in versi di Hugo La Rose de l’Infante); il coro del primo intermezzo, che ci porta in un’atmosfera di tipo “religioso”; l’aria in tre strofe, nella seconda scena (il carceriere racconta la rivolta delle città fiamminghe. Il testo è tratto dal racconto di Charles de Coster sulle avventure di Ulenspiegel). All’aria seguono alcuni versi delle poesie infantili della Pevarello in cui la voce del carceriere si distende in melismi; Concludono i tre ricercari della terza scena fondati il primo sulla serie della preghiera (“Signore, aiutami a camminare”), il secondo sulla cellula tematica “Fratello”, il terzo sul tema ritmicamente scandito della campana di Gand “Roelandt”; infine il secondo intermezzo corale.
La musica si esprime con ricchezza timbrica (particolarmente belli sono gli interventi della celesta), e in alcune occasioni assume un ruolo descrittivo, come ad esempio, quando il prigioniero vede il baluginare della luce attraverso la porta del carcere socchiusa. Qui la musica sembra guizzare sul timbro dei legni acuti dando l’immagine di questo balugginio luminoso.
Il canto è un declamato con brani di recitativo, di arioso o addirittura aria (come quella della seconda scena). Solo l’ultima parola, l’interrogativo sulla parola “Libertà?”, è parlata.
La messa in scena di Daniele Abbado è semplicissima. Vi sono alcune quinte scorrevoli, illuminate con differenti colori e diversi disegni di fondo ottenuti con proiezioni, che delimitano al centro uno spazio di dimensioni variabili, nel quale si muovono i cantanti. Non vi sono praticamente arredi. Nella terza scena, quella del corridoio del carcere, gli spazi centrali sono tre, di dimensioni degradanti su tre diversi piani (ciò che appunto dà l’immagine di un corridoio). Nell’ultima scena le quinte si ritirano completamente lasciando un grande spazio che diventa sempre più luminoso, mentre sul fondo compare la proiezione di un fumo, quello del rogo, che si leva verso l’alto.
L’esecuzione musicale (Direttore Bruno Bartoletti), come per il Volo di notte, è stata molto chiara (per quanto io possa giudicare: ma qui la comprensione, a causa della densità della musica è stata più difficile): i timbri orchestrali molto ben evidenti e perfettamente comprensibili. Anche i cantanti (gli stessi di Volo di notte: Carmelo Caruso nella parte del prigioniero, Rosalind Plowright nella parte della madre, il tenore Howard Haskin nella parte del carceriere-Grande Inquisitore) sono stati all’altezza della situazione.
Come per Volo di notte gli applausi finali sono stati calorosi e hanno denotato l’interesse e l’apprezzamento del pubblico (e mio, ovviamente) per l’allestimento.