PIKOVAJA DAMA, al teatro degli Arcimboldi

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Serata triste: prima di tutto a causa di un teatro con un numero incredibile di posti vuoti. Possibile che un’opera tanto bella sia stata così pesantemente snobbata dal pubblico? E se mai perché? Ignoranza? Sfiducia? Protesta? Davanti al teatro sindacalisti distribuivano volantini che cercavano di convincere la popolazione della giustezza della loro lotta, ma senza apportare novità a quello che già si sapeva, e, mi sembra, non convincendo nessuno su quella che i fatti continuano a fare apparire come una lotta di potere e non un vera questione sindacale. All’interno ho visto persone col telefonino in mano che confermavano a qualcuno in attesa che i volantini, sì, erano stati distribuiti; da altre parti si sentivano crocchi di persone discutere e confermare la vittoria di Muti. Fortunatamente c’era anche chi parlava dell’opera.

E di questo mi interessa soprattutto parlare. La dama di picche è 
un’opera che io trovo straordinaria. Come musica e come drammaturgia. La 
vidi a Ravenna nell’estate del 2003, in un allestimento del Helikon 
Opera di Mosca. Ne scrissi anche sul NG. Si trattava di un allestimento 
sui generis, con il taglio degli episodi e dei personaggi minori, e 
incentrato soprattutto nell’erotismo della contessa e nel suo rapporto 
con la sensualità del gioco. Non molti apprezzano tali interventi sulle 
opere. Io credo che dipenda soprattutto dalla visione che se ne fa 
l’interprete, e dal risultato. Quello ottenuto a Ravenna mi parve un 
risultato degno di interesse, basato su una riflessione attendibile e 
coerente col senso dell’opera, pur limitandosi a metterne in evidenza un 
aspetto; forse l’aspetto più emozionante.

Questo allestimento scaligero è invece tradizionale. Scene minimaliste, 
con scarsi arredamenti scenici che esprimono simbolicamente i luoghi. Il 
giardino della prima scena è indicato da parapetti che percorrono il 
palcoscenico, silhouette di persone contro luce che passeggiano, etc. La 
stanza di Lisa e quella della contessa sono rappresentate da un ovale la 
cui parte esterna è percorsa dal balcone, e la parte interna raffigura 
la stanza vera e propria. Le due parti scorrono le une sulle altre, e 
gli arredi della parte interna cambiano a seconda della necessità. La 
sala da ballo è rappresentata da uno spazio praticamente vuoto, con il 
fondo coperto da un sipario nero che alzandosi rivela un teatrino che 
poi avanza verso il proscenio. In quel teatrino si celebrano i balletti 
e la scena pastorale. La sala da gioco è disegnata da tre tavoli 
normalissimi, coperti da carte e bottiglie di vino, che si alzano dal 
pavimento, e sormontati da una grande carta che pende dal soffitto.

I costumi potrebbero riferirsi al primo decennio del novecento; solo i 
costumi della grande festa e della scena pastorale sono del Settecento.

Una scenografia povera di arredi, per non scadere nella povertà 
registica, secondo me richiede un’attenta direzione per quanto riguarda 
i movimenti delle persone e delle masse, e una forte presenza scenica 
dei personaggi, ai quali è affidato non solo il ruolo interpretativo 
della drammaturgia attraverso il canto, ma anche attraverso la loro 
corporeità. Tanto più in un’opera come La dama di picche, opera di 
intensi sentimenti e di musica che questi sentimenti rivela e illumina 
in modo così incandescente. Da quello che ho visto, invece mi è parso 
che in questo allestimento (regista, Stephen Medcalf) la dinamica dei 
movimenti, sia delle masse, che dei protagonisti fosse sotto tono, 
trasmettendomi una certa sensazione di staticità. 
Fra tutti, quello che mi è sembrato più riuscito è il personaggio di 
Herman, interpretato da un giovane tenore, Misha Didyk. Voce non 
potentissima, ma molto espressiva e capace di trasmettere quel misto di 
dolore e follia. Le sue movenze sulla scena rispondono prevalentemente 
alla lugubre solitudine di cui è circondato il personaggio. 
Molto brava anche Liza (Dagmar Schellenberger, che abbiamo già sentito 
alla Scala nei Dialoghi del 2004), anche se forse un po’ troppo statica 
nelle movenze corporee. E accanto a questi, mi pare giusto citare anche 
gli altri protagonisti, come il principe Eletskij (Dmitrij 
Hvorostovskij), il conte Tomskij (Vladimir Vaneev), la mezzosoprano 
Julia Gertzeva nella parte di Polina e di Daphni (stupenda la sua aria 
nella seconda scena del primo atto) e soprattutto la contessa, la 
indimenticabile Obratzova, che molti ricorderanno come la mezzosoprano 
che ha cantato nell’Aleksander Nevskij di Prokof’ev diretto da Abbado.

Il canto della vecchia contessa, le sue reminiscenze, il sensuale 
passaggio dal russo al francese, la melodia strascicata e lontana, sono 
fra le cose in questa opera che mi emozionano di più. E la Obrazova non 
è affatto mancata all’appuntamento.

Ma sopra tutto, quello che ho più ammirato è stata la direzione di 
Temirkanov. Presenza sul podio di grande signorilità; gesto pacato e 
ampio, a volte imperioso, e nei momenti cruciali coinvolto. Il risultato 
è stato una musica intensa, coinvolgente, capace di far emergere 
l’emozione dal canto, ma anche di dare grande respiro agli episodi 
orchestrali che nell’opera abbondano. Insomma, un grande direttore.

Il pubblico è stato coinvolto: pochi gli applausi a scena aperta o fra 
una scena e l’altra. Un po’ più convinti alla fine degli atti. Ma, 
veramente entusiasti, direi osannanti alla fine, soprattutto indirizzati 
al direttore Temirkanov, alla Obrazova e al tenore Didyk.

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