ATTESE, di Elena Loewenthal
Devo confessare che fare riflessioni su questo libro mi è difficile. Non ne capisco il senso. Leggo, e quello che leggo mi sfugge dal cervello come la sabbia sfugge fra le dita della mano. I personaggi sono sostanzialmente muti. I loro pensieri si muovono nella nebbia (che molto spesso viene evocata nel testo) come ombre che vagano, ma non si capisce bene dove siano diretti.
Il titolo, Attese, dovrebbe far pensare a personaggi, donne, che attendono. Che cosa? l’uomo dei sogni, la realizzazione della propria vita, il significato da dare ai ricordi? non capisco. C’è una ragione per cui le loro attese debbano essere prese in considerazione? Quali riflessioni questo libro vuole stimolare nel lettore? A me non ha stimolato nessuna riflessione particolare. La mia memoria non riesce a trattenere situazioni appena accennate, nebulose, che fondono in continuazione descrizioni ambientali, descrizioni di stati d’animo, descrizione di ricordi, in personaggi dai contorni indistinti. Insomma alla fine del libro mi sono chiesto: che cosa ho letto? Non sono riuscito a ricostruire nulla di quello che il libro narra. Mi è rimasta solo la sgradevole sensazione di un movimento confuso, che gira su se stesso, senza dare un punto di riferimento da cui far partire le riflessioni. C’è un oggetto che sembra essere il filo conduttore simbolico: un velo dall’apparenza antica, privo di un colore definito, morbido al tatto, che reca non chiare sensazioni di ricordi. Mi sembra un filo conduttore debole, ambiguo nella sua quasi immaterialità. Che cosa significa?
Il linguaggio è abbondantemente aggettivato, ricorre frequentemente a espressioni ricche di figure retoriche, e cerca di collegare l’immagine oggettiva di un ambiente, di un oggetto, al sentimento o alla sensazione che si vuole evocare. La figura retorica arricchisce il linguaggio, certamente, e per me lettore è stimolante. Tuttavia l’uso estensivo che ne fa l’autrice appesantisce la lettura e le fa perdere di efficacia.
Il libro si compone di quattro parti: Aria, Fuoco, Terra e Acqua.
La prima parte rappresenta una specie di prologo, e racconta dell’incontro di due donne ebree dell’Antico Testamento, con l’uomo. Rebecca va incontro a Isacco, figlio di Abramo, l’uomo che le è stato destinato come sposo. Lo ama perdutamente e aspetta ansiosamente il suo incontro senza averlo mai visto. Tamar si concede, all’insaputa dello stesso interessato, a Giuda, il padre dei suoi precedenti mariti, che l’ha rimandata a casa, per averne un figlio. Entrambe hanno il capo e il volto coperto dal velo.
In questi due episodi non c’è narrazione. Solo descrizione dei sentimenti che agitano le due donne e descrizioni ambientali fatte in modo da impregnare i paesaggi con loro sentimenti, attraverso l’uso delle figure retoriche. Confesso di averli letti con un certo sforzo e di non averne capito il senso.
Le altre tre parti hanno una sorta di continuità temporale (le vicende sono ambientate in un periodo che va dalla fine dell’Ottocento, a dopo la seconda guerra mondiale). La seconda e la terza parte sono collegate, in modo labile, tramite due diverse generazioni della stessa famiglia. La quarta parte, come d’altronde la prima, sono collegate alle altre dalla presenza del velo, che si tramanda in modo quasi inconsapevole di generazione in generazione, o da attesa ad attesa; oggetto di lutto, di matrimonio, di simbolo, etc.
La seconda parte e’ la più estesa. Ha come protagonista Bianca, rampolla di una famiglia di ebrei che vivono a Torino, e che va in sposa ad Arturo a seguito di un accordo fra questi e il padre della ragazza.
La parte ha una specie di introduzione, nella quale vi si descrive la famiglia; l’usanza del padre di portare i figli all’ingresso del Teatro Regio in occasione delle Prime, per godersi l’arrivo dei ricchi e nobili spettatori; qualche annotazione sulle giovani figlie; il ricordo retrospettivo di una misteriosa avventura amorosa della nonna (la madre del padre); e altri piccoli e comuni eventi. La parte narrativa racconta della protagonista; delle sue sensazioni di vivere accanto ad un uomo che, tutto sommato le interessa relativamente, ma che comunque è la sua famiglia; della sua solitudine; della sua delusione di vivere, lei abituata alla attiva vita di Torino, in una morta città di provincia. Qualche raro evento, come la sua abitudine di cantare alla finestra, e la contrarietà del marito, ci dà una lieve traccia per poter distinguere i contorni di un personaggio fatto quasi solo di pensieri e sensazioni. Alla morte prematura del marito, ella assume la guida della famiglia, educa i figli, Mario e Giorgio. Ironicamente, leggo una frase che aiuta a capire lo scarso interesse di questo racconto: “Scendendo dal carretto, e poi passando di stanza in stanza lungo la balconata, Claudia ebbe l’illusione che in quelle sette stagioni non fosse successo nulla”. Appunto. Non succede nulla. Succede invece qualche cosa alla fine: l’incontro di Bianca con Achille e il loro reciproco innamoramento. L’attesa: di che cosa? Di Achille? del vero amore? di una vita reale? Viene da pensare: grazie Arturo che sei morto in tempo! Altrimenti l’attesa avrebbe dovuto durare chissà quanti anni ancora. Forse per sempre. Non mi sembra una condizione di estremo interesse. Scritto con il linguaggio barocco di figure retoriche in abbondanza, senza raccontare nulla, non mi sembra strano che questo episodio del libro sia privo di interesse e mi abbia annoiato.
Anche la terza parte ha un’introduzione: la descrizione del parto di Adele, la moglie di Mario, uno dei figli che Clara ha avuto dal primo marito. In questa introduzione ci si sofferma sul matrimonio di Clara e Achille, e sulla crescita di Mario che si laurea in medicina e va a vivere a Mantova. La protagonista del capitolo è tuttavia la levatrice, Elvira, che ci è presentata mentre assiste al parto. Il capitolo percorre la sua vita trascorsa assieme al marito Ariodante. I coniugi sono due ebrei che vivono nel ghetto della città. Lei fa nascere tanti bambini, ebrei e no. Lui è un venditore ambulante di immagini cristiane, pur essendo di fede ebraica. Per sommi capi vengono narrate alcune vicende di vita quotidiana, come per esempio la gioia di Ariodante che riesce ad acquistare una bicicletta che gli rende il lavoro piu’ spedito e meno faticoso. L’affiorare di notizie su Gerusalemme solleva nei due coniugi un vago desiderio di poterla un giorno vedere. Solo nel finale il racconto si fa più serrato: I due sono invecchiati, non riescono più a lavorare, decidono di entrare in un ricovero per ebrei anziani. Tuttavia le leggi razziali incalzano, i tedeschi fanno delle retate, e, contro tutte le previsioni, arrivano perfino a deportare i vecchietti dell’ospizio. Elvira e Ariodante saliranno su un treno e finiranno la loro vita nei forni crematori di Auschwitz.
È difficile, anche in questo episodio, capire il senso dell’ attesa. La Loewenthal scrive in una nota introduttiva che Elvira aspetta la Terra Promessa mentre fa nascere i bambini; Terra Promessa che non vedrà mai, perché tutto finisce dentro un forno crematorio. Ma nel racconto la Terra Promessa appare solo in lontananza, come una vaga idea, un desiderio impossibile come tanti se ne fanno nella vita. Dove sta l’attesa? e di che cosa?
La quarta parte è piuttosto breve. Una ragazza, dal nome sconosciuto, affitta un piccolo appartamento a Venezia. Si offre di aiutarla per sistemarlo a dovere il suo ex fidanzato, che ella ha definitivamente lasciato e del quale non è più innamorata (se lo è mai stata). Le speranze residue del giovane vengono rapidamente deluse dal comportamento della ragazza. Con uno stacco improvviso viene introdotto il racconto di un giovane ebreo yemenita, che emigra con la famiglia, e dopo varie peripezie approda a Brooklin, nel quartiere ebraico, dove entra in una comunità Chassidica, e si impiega come aiuto libraio. Dopo alcuni anni il giovane viene inviato in Italia per fondarvi una comunità. Il giovane non ha tuttavia un’irresistibile vocazione religiosa; e in Italia, a Venezia, si spoglia dei simboli chassidici e trova lavoro come soffiatore di vetro a Murano. Passa le domeniche in un bar all’ingresso del ghetto, bevendo un bicchiere di tè e leggendo la Bibbia. Il bar è situato davanti alla casa della ragazza. Il capitolo si chiude con la ragazza che, ignorando la presenza dell’ex fidanzato, affacciandosi alla finestra, vede il giovane yemenita, e si chiede, con evidente interesse: “Chi è quell’uomo?”
Racconto enigmatico, poco comprensibile, con un inserto che porta improvvisamente il lettore lontano per poi riportarlo a Venezia nel bar davanti alla casa della ragazza innominata, e che si conclude con l’esplodere, senza una apparente ragione, di un colpo di fulmine (o si suppone tale). Il senso di tutto ciò mi sfugge. L’attesa? quel ragazzo rappresenta l’obiettivo dell’attesa? Non vedo il nesso. Sempre nelle sue note, la Loewenthal scrive: “Una giovane donna si affaccia ad un destino che ancora non sa, eppure è il suo”. Ma questo non è vero per tutti?