GULAG – Storia dei campi di concentramento sovietici, di Anne Applebaum

 

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Credo che la conoscenza delle più tragiche e ripugnanti violazioni dell’umanità, quali sono avvenute nei campi di concentramento, soprattutto quelli di stati totalitari, sia un dovere morale. Per questo motivo ho letto il libro di Hilberg La distruzione degli Ebrei d’Europa, che mi ha consentito di penetrare la logica con la quale i nazisti sono arrivati a progettare ed eseguire il massacro di sei milioni di Ebrei. E sempre per questo motivo mi sono accinto alla lettura del libro di Anne Applebaum sul sistema sovietico dei Gulag.

Come mi aspettavo, la Applebaum, con una descrizione vivace e commossa, offre al lettore un quadro a tutto tondo dell’orrore vissuto da milioni di persone che in seguito ad arresti, molto spesso arbitrari, sono state condannate a vivere gran parte della loro vita in campi di concentramento posti in terre con climi infernali, dalla natura ostile, in balia di sistemi di sorveglianza spesso rozzi, violenti, sempre indifferenti alle sofferenze individuali, e sottoposti a regimi alimentari ai limiti, ma spesso anche sotto i limiti, della sopravvivenza. Quello che più stordisce è il fatto, ampiamente riportato, e sconvolgente che i detenuti, in quelle condizioni disumane, fossero sfruttati come mano d’opera per i lavori più gravosi; in pratica fossero utilizzati come schiavi, nel significato più brutale del termine; e ancora di più stordisce che, in parte a causa di questo lavoro coatto, si sia realizzata l’industrializzazione e lo sviluppo dell’Unione Sovietica, il paese che rivendicava, come base della sua ideologia e della sua organizzazione statuale, il marxismo, ovvero la condanna dello sfruttamento del lavoro, e l’esaltazione della dignità dell’uomo come soggetto di produzione.

La lettura di questo libro non può non provocare un senso profondo di disagio, o ancor più di sofferenza, soprattutto in coloro che hanno creduto alla possibilità della realizzazione dell’utopia comunista.

Infatti la tesi che la Applebaum sostiene nel corso della sua analisi è quella di una condanna non solo del sistema dei Gulag, ma anche del sistema statuale scaturito dalla rivoluzione di ottobre; e sostiene l’idea che l’orrore della dittatura staliniana e del sistema dei Gulag, non sia il prodotto di una profonda deviazione che il regime di Stalin ha impresso al paese e alla sostanza dell’ideologia marxista, ma null’altro che lo sviluppo naturale dello stato leninista. E questa sua tesi viene supportata dall’esistenza già negli anni Venti, di prigioni e campi di concentramento come quelli delle isole Soloveckle (sulle quali si diffonde particolarmente), luoghi di lavoro forzato e di orrore; dall’esistenza già allora di una polizia segreta (la Ceka) con compiti repressivi degli avversari politici; dall’esistenza già allora di prigionieri politici (socialisti rivoluzionari, menscvichi, guardie bianche et.).

 

Tuttavia, al di là dell’emozione che scaturisce dalla lettura di centinaia di episodi, quasi tutti derivati dalla memorialistica dei sopravvissuti, ma molti derivati anche da documenti ufficiali resi disponibili dopo il dissolvimento dell’Unione Sovietica, credo che un’analisi della struttura del libro vada fatta.

Ed è secondo me inevitabile fare il confronto col libro di Hilberg sui campi di sterminio nazisti, libro che, per la serietà scientifica, per la documentazione, e per la freddezza con la quale vengono descritti fatti, che non hanno bisogno di sottolineature emotive tanta è l’emozione che la loro cruda conoscenza sollecita, è esemplare. E questo confronto, secondo me, è profondamente negativo.

Quello che mi sembra balzi agli occhi è la sensazione che la Applebaum più che di una storica, abbia il taglio di una giornalista. L’affermazione di Richard Pipes riportata in copertina, che il libro della Applebaum sia “il primo studio scientifico aggiornato sull’istituzione su cui si basò la repressione del regime sovietico”  mi pare piuttosto azzardata. Il libro mi sembra più una raccolta di innumerevoli episodi tratti dalla memorialistica dei sopravvissuti e dei reduci, che un tentativo sistematico di ricostruire la storia dei Gulag. Spesso vengono avvicinate situazioni molto differenti, sia come epoca che come contesto, accomunate tuttavia dall’orrore delle sofferenze umane. Ciò sembra fatto più per creare un’atmosfera di emozione, che per cercare di analizzare a fondo quali rapporti ci siano stati, ad esempio, nella vita e nella funzione dei Gulag, fra gli anni subito successivi alla rivoluzione di ottobre, e gli anni del Grande terrore. Se è vero che i prigionieri dei campi in entrambi i casi hanno sofferto l’indicibile, e’ vero anche che non si può assimilare la natura di campi cresciuti in un clima rivoluzionario di estreme tensioni, di brusco e violento cambiamento di regime, di rovesciamento della gerarchia dei valori, etc (si potrebbe dire che campi, persecuzioni, violenze erano fatte allo scopo di salvare una rivoluzione, come d’altra parte e’ stato fatto in occasioni simili anche in altri paesi, come la Francia), con quella dei campi del regime staliniano, attuati ed sviluppati al solo scopo di vincere una lotta politica e di potere interna, e di realizzare un progetto di industrializzazione forzata e collettivizzazione (si potrebbe dire che campi, deportazioni, persecuzioni etc. avessero come scopo, oltre a quello di realizzare una produzione a basso (?) costo basata sul lavoro coatto, quello di difendere il potere di una persona, il dittatore e il suo gruppo di alleati).

Questa distinzione, nel libro non appare, e tuttavia mi sembra molto importante. E questa distinzione manca perché manca l’organizzazione storica della materia, come invece c’è nel libro di Hilberg. A parte, per esempio, i nomi dei responsabili degli apparati repressivi e i nomi di alcuni comandanti di campo, nulla viene specificato (come nomi, come organizzazione, come gerarchia etc. nei diversi periodi della vita dell’URSS) in merito a quella rete di burocrati, di militari e quant’altro, che non poteva non esistere per realizzare un compito così gigantesco come la deportazione di milioni di persone, di intere comunità nazionali, etc.

Inoltre, laddove mancano documentazioni precise (e in questo settore le lacune sono ancora grandissime, occorre ammetterlo), la Applebaum risolve tutto con l’uso di espressioni del tipo “probabilmente”, “è facile pensare che”, etc.

In Hilberg tutti i fatti, tutti i nomi dei responsabili sono dettagliati in modo fin troppo pedante, e la sua ricostruzione ancora oggi è ritenuta fondamentale, e difficilmente discutibile.

Una seconda affermazione discutibile, più volte reiterata e’ il paragone del sistema dei Gulag ai lager nazisti. Certo, in entrambi i casi vi è un organismo della stato che provvede agli arresti, alle deportazioni, alla costruzione dei campi. Ma quello che li distingue, secondo me molto profondamente, è l’obiettivo finale. Nei gulag staliniani l’obiettivo finale era comunque e sempre il lavoro coatto come contributo alla realizzazione dei piani quinquennali, e in secondo piano la neutralizzazione degli oppositori. Le morti, anche quelle violente, anche quelle per inedia, anche quelle per malattie provocate dalle proibitive condizioni di vita, erano molte, in certi periodi moltissime, ma non erano l’obiettivo. Spesso erano dovute al disinteresse o, peggio ancora, al sadismo dei sistemi di sorveglianza, ma che non fossero l’obiettivo dell’organizzazione ce lo dice la stessa Applebaum, quando si diffonde sulle norme “ufficiali” del trattamento dei prigionieri, o quando riporta punizioni esemplare per quelle guardie che indulgono in maltrattamenti. Ciò, certamente non ne attenua l’orrore. Nel lager nazisti l’obiettivo finale era lo sterminio, scientifico e consapevole della popolazione ebraica come tale, oltre allo sterminio di altre comunità più piccole come gli zingari. La differenza non mi pare da ignorare.

Un terzo elemento discutibile è il tono del libro. In questo senso è più condivisibile l’altra espressione riportata sul retro della copertina, quella di Robert Conquest, e cioè che il libro suscita “insieme emozioni profonde e una profonda commozione”. Questo, più che non l’intento storico-scientifico, sembra essere il motore del libro. E non è trascurabile neppure il tono velatamente polemico che il libro assume nei confronti di coloro, anche scrittori americani come Gore Vidal, che hanno criticato la guerra fredda, l’anticomunismo viscerale che serpeggiava, a volte anche dominandola, la vita politica e la base sociale americana. Ciò lo si osserva in modo diffuso nel libro, e in particolare nell’Introduzione e nell’Epilogo, dove il tono e’ più quello di una combattente contro un regime e una ideologia, che non quello di una scienziata. In sostanza sembra che il libro sia stato scritto più come espressione di schieramento nella guerra fredda che come ricerca storica su una verità orribile e ancora tutta da scoprire, quella dei Gulag. È significativo come questo tono manchi del tutto in Hilberg, che, nella rigorosa ricostruzione storica, non ha bisogno di polemizzare con chi la pensa in modo difforme sulla natura del nazismo e dell’Olocausto. Bastano, per trarre conclusioni sulla natura del nazismo, i fatti ricostruiti in modo scientifico. 

In conclusione, se il quadro descritto dal libro è in grado di commuovere e di turbare, e, giustamente, richiama l’attenzione su un fenomeno spaventoso, quello del sistema di repressione sovietico e dello schiavismo e dello sfruttamento del lavoro coatto, molto da ridire vi e’ sulla natura scientifica della ricostruzione storica, spesso confusa, poco approfondita (rari sono i documenti nuovi), e con un tono che lascia intendere la foga di schieramento politico piuttosto che la sistematicità del ricercatore.

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