IL DOLORE PERFETTO, di Ugo Riccarelli
Questo romanzo ha vinto il premio Strega per il 2004. E l’ha vinto anche alla grande, con 157 voti su 359 votanti, quasi il doppio del secondo arrivato. Attese, della Loewenthal. Di solito il premio Strega e’ un buon indice, quindi mi aspettavo un libro che mi destasse interesse. In realtà questo non è avvenuto.
Anzitutto trovo difficoltà a definirlo romanzo. Si tratta di una saga che coinvolge per tre generazioni due famiglie che vivono in una piccola regione della Maremma toscana (il paesaggio è dominato dalle paludi), e che percorre un arco della storia d’Italia che va dagli ultimi anni del 1800 (gli anni dei tentativi colonialisti culminati con la sconfitta di Adua, e della violenta e sanguinosa repressione dei moti milanesi da parte del generale Bava Beccarsi che non esitò a sparare sulla folla col cannone provocando molti morti) fino agli anni successivi alla seconda guerra mondiale.
La saga inizia con l’arrivo del nuovo maestro, un giovane anarchico convinto che proviene dal comune di Sapri, qualche anno prima teatro del massacro del piccolo esercito di Pisacane nel quale trova la morte anche un suo cugino, al comune di Colle Alto, dove stanno costruendo la ferrovia. La sua gentilezza e la sua disponibilità gli conquistano le simpatie della gente e l’amore di una vedova con la quale convive ed ha quattro figli.
Contemporaneamente si svolge la storia dell’altra famiglia, che abita nel paese confinante. Si tratta di tre fratelli dei quali il piu’ anziano viene descritto come un abile e ricco commerciante di maiali. La due famiglie verranno a contatto attraverso l’incontro di due dei loro discendenti Annina e Cafiero, che si innamorano. L’unione provoca il nascere di una duratura ostilità, che solo i tempi lunghi, le guerre, le morti assopiranno.
Il tema principale del libro e’ il dolore che segue l’abbandono di persone amate, figli, sposi, fratelli soprattutto: abbandoni per partenze, abbandoni per morti, abbandoni forzati per le vicende familiari. E l’abbandono diventa causa di dolore permanente quando divide gli affetti e quando si materializza sotto forma di ricordo.
Su questo tema lo scrittore si sofferma con ricchezza di particolari e direi anche con insistenza. Soprattutto sulle morti; morti che in gran misura hanno le caratteristiche di intrusioni violente, dell’uomo o della natura, nella vita che le due famiglie cercano di costruirsi alla ricerca di un equilibrio di pace e di libertà l’una; e di un equilibrio di agiatezza ed anche di potere l’altra.
Le morti sono numerose: per incidente sul lavoro, per follia, per azioni militari (durante la guerra di Etiopia, e durante la seconda guerra mondiale), per eccidi durante le manifestazioni, per dolore tanto intenso da provocare perdita della ragione, per suicidio, per percosse da parte dei fascisti, per epidemie influenzali, etc. Il tema della morte accompagna tutto il libro come la fonte più crudele e più definitiva del dolore dei sopravvissuti.
Nel non lungo percorso del libro (circa 300 pagine), e nel lungo percorso della storia d’Italia come sfondo ambientale (una sessantina di anni), i personaggi sono tantissimi. Gli episodi di cui sono protagonisti (amori, partenze per lidi lontani o per la guerra, morti più o meno cruente, scontri familiari, etc) sono narrati brevemente, come tessere di un mosaico rappresentato appunto dalla saga.
In questo tipo di ambientazione manca, la capacità (o la volontà) di raccontare. Troppe cose accadono, troppi i personaggi, troppo lungo è l’arco storico coperto, e troppo breve il libro.
In mancanza del racconto, quello che prevale è la descrizione. Descrizione dell’ambiente naturale, descrizione dei ricordi, descrizione dei sentimenti, descrizione dei sogni, descrizione degli stati d’animo. Troppe, troppe descrizioni, e troppa sintesi nel racconto dei fatti, degli episodi. Questo finisce per ingenerare una caduta di interesse.
I personaggi che ne risultano sono monocromi. Alcuni sono definibili come “cattivi” sia pure in diverse gradazioni, soprattutto i fratelli Bertorelli e più ancora il figlio di Ulisse, che Telemaco, subito dopo il suicidio del padre, fa proprio, Enea, vera carogna fin dalla giovane età. Altri sono definibili come “buoni” ricchi di virtù, e quasi sempre vittime di prepotenze. Altri ancora sono definiti come vittime innocenti, vuoi delle azioni dell’uomo, vuoi dalla natura. E i loro pensieri, i loro desideri, le loro sofferenze sono intrise di bontà, di umanità, di senso di ingiustizia riservato loro dalla vita, anche se temperato dal loro schierarsi appunto come personaggi “buoni”, capaci di sentire il dolore per i torti subiti, ma incapaci di pensare alla vendetta contro chi ha fatto i torti.
Non è che i personaggi non abbiano una loro caratterizzazione, anche se molto sintetica. Ulisse appare come un personaggio contraddittorio, combattuto fra una grande tenerezza per la moglie (che non lo ricambia) e la fredda astuzia del commerciante. Il conflitto si aggraverà al punto da indurlo al suicidio. Annina si rivela una ragazza coraggiosa, lucida fin da piccola, convinta delle scelte per le quali si batte con determinazione quasi maschile. I due fratelli Ideale e Sole sono caratterizzati in modo più grezzo: il primo estroverso, amante della meccanica, il secondo più introverso e portato alla riflessione. Telemaco, il fratello di Ulisse, è descritto come ambizioso e violento, e a modo suo furbo come lo sono gli abili commercianti. Ettorre, l’altro fratello, è pure ambizioso, ma meno deciso nelle sue scelte e frequentemente soggetto a quelle del fratello. Il Maestro e Cafiero, sono persone libere, affascinate dal movimento anarchico, e dolci e umane nei rapporti con gli altri, capaci di un amore immortali, etc.
Tutte queste caratterizzazioni tuttavia, tratteggiate a larghi tratti di penna, senza entrare più a fondo nei comportamenti quotidiani, che sono i veri componenti della personalità, e che sono poi alla base anche della grandi scelte, più che ritratti sembrano essere schizzi fatti con la penna.
Molto più dettagliate appaiono invece le descrizioni: esse sono molto importanti nel corso di un racconto, in quanto aiutano il lettore a ricostruire un ambiente fisico in cui si svolgono i fatti, oppure a entrare nel particolare momento di un personaggio che compiere una determinata scelta nel corso degli eventi narrati, oppure a rivelare un sogno che riflette la reazione psicologica della persona ad eventi che le sono accaduti nel corso dei fatti narrati. Diventano fonte di disinteresse e di noia quando sono fine a se stesse, o si riferiscono a generici momenti vissuti dal protagonista che con i fatti narrati hanno poco o nessun rapporto, o quando indugiano nel piacere della descrizione senza aggiungere nulla a ciò che già si sa o facilmente si immagina, o quando sono ripetitive; e questo vale per le descrizioni ambientali, per i sogni, per le descrizioni di ricordi, etc.
Di questi ultimi generi di descrizione, appunto, il libro sovrabbonda. Viene da chiedersi: non saranno esse da interpretarsi come surrogato alla perdita della capacità della scrittore di essere un narratore?
Domanda che nel corso del libro mi è più volte venuta alla mente.
Per finire, nella lettura mi è sembrato di osservare alcune situazioni che mi hanno richiamato alla mente altre cose: per esempio la macchina del moto perpetuo, che Ideale costruisce in una specie di capanno, una ex-stalla per maiali, la sessa dove si è impiccato Ulisse, mi ha ricordato la macchina per volare che tanta parte ha nel romanzo di Saramago “Memoriale del Convento”. È una citazione?
Altra situazione deja vu (la Tosca) è il concedersi di Natalia all’ufficiale nazista nel tentativo di salvare il marito. È anche questa una citazione, o solo una combinazione?