STIVALETTI, alla Scala
Confesso che ero un po’ prevenuto. Avevo ascoltato attentamente più di una volta l’unica edizione in CD presente in commercio, quella della Dynamic, ripresa live della rappresentazione di Cagliari, e non mi aveva entusiasmato. Intendiamoci, non che non ci fosse della musica bella: Čajkovskij è sempre Čajkovskij. Bella introduzione orchestrale, bei cori, alcune belle arie, ma non afferravo la presenza del colpo di genio che si avverte subito nell’Onegin e nella Dama di Picche, rispettivamente scritte subito prima e subito dopo Gli stivaletti.
L’altra cosa che contribuiva a creare la diffidenza era la trama: l’opera è tratta da una novella di Gogol La notte prima di Natale. Si tratta di una fiaba russa… pardon, ucraina (oggi occorre imparare a fare attenzione a certe identità culturali) che nel libretto di Jakov Polonskij appare organizzata in modo alquanto sgangherato, e piuttosto lontana dalla raffinata e bonaria ironia del modello.
Il terzo motivo di diffidenza era la faticosa gestione dell’opera da
parte dell’autore: proposta in un primo tempo col titolo di Vakula il
fabbro, venne accolta molto freddamente dal pubblico russo. Rifatta, col
titolo Gli stivaletti, venne di nuovo rifiutata dal pubblico. A questo
punto Čajkovskij, che si dice pur amasse quell’opera, decise di
ritirarla dalle scene. Da allora non è mai stata più rappresentata
fino a Cagliari 2000.
Della rappresentazione di Cagliari del 2000 non si è parlato molto
(almeno, io non ho visto molto) se non la critica positiva (o secondo
altri negativa) al Teatro e al suo sovrintendente Meli, riguardo una
politica di rappresentazione, almeno una volta l’anno, di opere poco o
mai rappresentate in Italia: fra questa l’Elena Egiziaca di Strauss
(2001), La guardia dello Zar ancora di Čajkovskij (2003), l’Euriante di
Weber (2002), l’Edipo di Enescu (2005), l’Alfonso e Estrella di Schubert
(2004).
Quindi per me questi Stivaletti scaligeri si presentavano più come una
curiosità che come qualche cosa “da non perdere”.
In realtà lo spettacolo cui ho assistito è stato ben altra cosa che
una curiosità: uno spettacolo sontuoso, ricco, affascinante che mi ha
avvinto dall’inizio alla fine.
Come dicevo, l’opera è stata ispirata a una novella di Gogol’, La notte
prima di Natale, che fa parte della raccolta Le veglie alla Masseria
presso Dikan’ka, una raccolta di novelle ambientate fra i cosacchi del
Dnepr e quindi di sapore ucraino. La stessa lingua usata da Gogol’
utilizza termini ucraini estranei al vocabolario russo; il titolo
dell’opera, Chereviki, è anch’esso una parola ucraina che significa
Calzature (Cherevichki quindi = stivaletti).
La trama quale appare nel libretto è praticamente identica alla trama
della novella.
Nella notte di Natale, Bes, un diavoletto maligno ma sfortunato, decide
di vendicarsi del fabbro Vakula, giovane di belle speranze, innamorato
di Oksana, ragazza bellissima ma molto capricciosa, figlia di Ciub,
autorevole cosacco del villaggio. Il fabbro Vakula, che è anche
pittore, è reo di averlo ritratto in modo caricaturale su una
staccionata, e di averlo reso lo zimbello degli altri diavoli che
popolano l’inferno.
Per ottenere il suo scopo, il diavoletto ruba la luna dal cielo, fa
scatenare una tempesta di neve, e costringe così Ciub a tornare a casa
anzitempo, trovare Vakula solo con la figlia e bastonarlo di santa
ragione.
Le cose tuttavia vanno al contrario: è Vakula a picchiare Ciub, tanto
da suscitare lo sdegno dell’amata, che lo caccia.
Vakula così, afflitto, vaga per il villaggio le cui strade vengono
riempite dalla gente in festa: è la vigilia di Natale. Si va a far
visita agli amici, si cantano canzoni, si raccolgono doni.
Oksana è ammirata dalle amiche e dagli amici per la sua bellezza e la
sua eleganza. Ma vuole un dono: gli stivaletti della zarina; e promette
che sposerà colui che glieli porterà.
Vakula sente la promessa. Con uno strattagemma riesce a catturare il
diavoletto Bes e farsi portare in volo a San Pietroburgo, dove
incontrerà la zarina (nell’opera in realtà il suo favorito Potëmkin:
non era lecito che Caterina II fosse impersonata sulla scena da una
cantante) che gli farà dono dei suoi stivaletti.
Il fabbro potrà così tornare al villaggio, farsi perdonare da Ciub e
finalmente sposare la sua Oksana.
Al libretto, in quanto tale, mancano la poesia, il colore, l’ironia, la
freschezza della novella di Gogol’. A riempire questo vuoto ci pensa la
musica di Čajkovskij. L’orchestra, sia nei brani strumentali (Ouverture
e intermezzi) sia negli accompagnamenti, è coloratissima. I diversi
strumenti vengono utilizzati per creare atmosfere molto suggestive
(penso ad esempio l’uso dei corni nell’ouverture, a disegnare una lunga
melodia, di stile molto russo – o ucraino, non so – accompagnata dal
leggero pizzicato dei violini; oppure l’uso dei flauti col loro suono
dolce ma intriso di ironia, etc,); il canto è spesso affidato a
bellissimi cori (l’opera è sostanzialmente un evento corale che ci
introduce nella rutilante e coloratissima vita di un villaggio ucraino
in una notte di festa), o a brani d’insieme, soprattutto duetti.
I personaggi: Solocha, la strega, madre del fabbro, che vola su una
scopa assieme al diavoletto, e nel villaggio riceve e offre una discreta
compagnia ai vecchi cosacchi che soffrono di solitudine, interpretato da
un mezzosoprano con arie e duetti intrisi di erotismo; il diavoletto Bes
che vuole vendicarsi e resta invece scornato, interpretato da un
baritono; Il maestro di scuola, tenore buffo che si reca da Solocha di
nascosto della moglie, ma non riesce a combinare nulla (fa venire in
mente il Maestro di scuola della Piccola volpe astuta, circostanza del
tutto casuale, dato che Janáček non conosceva l’opera di Čajkovskij);
Ciub il cosacco di aspetto imponente, amante del mangiare e del bere
interpretato da un basso; Oksana la sua bellissima e capricciosissima
figlia che fa soffrire Vakula (soprano con passaggi di coloratura);
Vakula stesso, tenore con appassionati ariosi e duetti con Oksana; il
favorito di Caterina II, Potëmkin, baritono, che canta, accompagnato dal
coro, una serie di divertenti couplettes.
Insomma, una ricchezza di personaggi, maggiori e minori, popolano e
danno vita a un’opera da favola nel cuore del folklore russo-ucraino
(bellissimi ad esempio sono i mimi che impersonano gli spiriti della
bufera, in abiti da straccioni, barbe incolte, e che si muovono sullo
splendido tema, etc.).
E a una favola si riferisce la regia, basata soprattutto su una
scenografia ricchissima, sullo sfondo di una notte stellata con una
enorme falce di luna. E i paesaggi cambiano per offrire via via una
campagna al centro della quale troneggia un enorme uovo, la cui metà
superiore si innalza liberando un castello di quelli tipici delle favole
che troneggia sulle sfondo di molte scene; l’interno di chate ucraine
(la casa di Soloha, la casa di Ciub e Oksana) con finestrelle, piccoli
arredi dai disegni semplici e infantili come si conviene alle fiabe;
personaggi come la strega e il diavoletto, o a volta il diavoletto e
Vakula il fabbro che attraversano la scena sopesi nell’aria oppure su
scope volanti; o l’ambiente del villaggio, con la folla in festa che
canta e balla nella notte stellata fra chate che pendono dal cielo; o
ancora l’ambente di corte settecentesco dove dame e cavalieri, che
indossano sontuosi vestiti e altrettanto sontuosi copricapi piumati, si
spostano sulla scena con delicate movenze; o i balletti, quello russo
danzato da ballerine e quello cosacco danzato da uomini con opportuni
costumi di color rosso vivo.
Il tutto è reso vivacissimo dai colori e soprattutto dai costumi,
tipicamente russi (o ucraini), dove il rosso predomina in intense
pennellate dei costumi cosacchi, ma dove colpiscono l’occhio anche il
giallo dorato, l’azzurro intenso, e policromie dei costumi delle donne
(o babe, come le donne ucraine vengono chiamate).
Insomma lo spettacolo è stato veramente godibile, e musica,
scenografia, movenze dei cantanti e del coro, colori dei costumi, canto,
tutto sembrava fondersi per creare un’atmosfera magica e fiabesca.
C’è da chiedersi perché un’opera come questa sia rimasta per tanto
tempo sepolta nel dimenticatoio. C’è da augurarsi che questa
trascuratezza finisca quanto prima, non tanto per la gloria di
Čajkovskij (che non ha certo bisogno) ma per offrire agli appassionati
di lirica un capolavoro che una buona regia può collocare fra i massimi
del compositore russo, accanto all’Eugenio Onegin e alla Dama di picche.
Sull’esecuzione non ho nulla da dire. Se la serata ha attirato in questo
modo il mio interesse, come mi pare quello di tutto il pubblico, che ha
applaudito alla fine, e in qualche occasione anche a scena aperta, con
grande entusiasmo, questo significa che sia il direttore che il cast
hanno dato un contributo di ottimo livello.
I nomi: il direttore è un giovanissimo, e a me finora sconosciuto,
Arild Remmereit; i cantanti principali sono il tenore Vsevolod Grivnov
come Vakula; il soprano Irina Lungu come Oksana; il mezzosoprano Irina
Makarova come Solocha; il basso Ognovenko come Ciub; il baritono
Schagidullin come il diavoletto Bes, a altri ancora. La regia è di Yuri
Alexandrov e le scene e i costumi di Vjaceslav Okunev.