MANDAMI A DIRE, di Pino Roveredo
14 novelle, 14 piccoli-grandi capolavori, 14 piccole apparizioni di un’umanità densa, palpitante, emozionante nella sua semplicità, nella sua espressione di sentimenti elementari, veri, immediati nella loro comprensione.
Il primo racconto, Parlare con le mani ascoltare con gli occhi ci conduce negli anfratti di una famiglia nella quale un figlio normalmente “ascoltatore” cresce con genitori sordomuti. Il primo linguaggio che il figlio impara è quello delle mani, il mondo in cui impara a vivere è quello del silenzio, quello in cui gli occhi, lo sviluppatissimo organo dell’udito dei sordomuti, vedono-sentono quello che gli occhi degli “ascoltatori” frastornati dai rumori non possono vedere. Sappiamo che questa è stata nella realtà la prima esperienza dello scrittore: un racconto che è una confessione delle origini della sua scrittura, prolungamento del linguaggio delle mani.
C’è poi forse il racconto più emozionante, quello che dà il titolo alla raccolta, Mandami a dire, una lettera che un dimesso da un manicomio scrive ad un suo amore, non si sa se fisicamente esistente o vero (ma comunque vero) solo nella sua fantasia. E nella lettera i valori si offrono invertiti: la libertà è una prigione le cui sbarre tengono lontani gli amanti, il “Casamento” (cioè il manicomio) è il luogo felice dove gli amanti potevano almeno vedersi affacciati alle finestre, dove, certo, c’erano torture come l’elettroshock, i pestaggi degli infermieri, ma al di là di tutto c’era la possibilità di donare un effimero fiore cresciuto al centro del cortile coperto di neve. Ora rimane solo la speranza di poter rivedere la donna amata, magari di poter tornare al Casamento, anche se tutte le lettere scrittele ritornano al mittente, anche se il telefono non risponde.
Forse Basaglia è morto troppo presto: ha fatto chiudere quei mostri dei manicomi, ma il mondo nel quale ha avviato i loro ospiti è un mondo ostile, e la ricerca di un minimo di felicità continua all’infinito, forse in modo ancora più crudele.
Il terzo racconto, 100! 120! 140!… è straziante. A una coppia di genitori di una certa età arriva per telefono la notizia: il loro unico figlio è morto in un incidente stradale. Nel lungo racconto si dipanano i sentimenti che via via si materializzano nel padre e nella madre, a partire dalla reazione al “mi dispiace” con cui il carabiniere conclude l’annuncio; il lungo pianto del padre, pianto silenzioso che evoca i ricordi della dolcezza e la bellezza dell’affetto; il funerale; il grido disperato “NO! NO! NOOOOO!!!!… Vi prego, vi prego tanto, ancora un momento, giusto il tempo di dire una cosa al mio caro, guardate, faccio subito, mi bastano solo cinquant’anni!”; gli inviti al coraggio da parte degli amici; i tentativi della famiglia del responsabile di porgere le scuse; il mutismo della moglie e il suo perdersi in un mondo del nulla, quello nel quale è perso il suo unico figlio; il rifiuto di farne un altro, perché quello che è morto è l’unico, e il dolore che con la sua morte egli ha portato con sé è anch’esso unico, e nulla e nessuno lo potrà sostituire (vedi la sequenza di domande retoriche su quello che potrebbe essere il nuovo figlio, alla fine nient’altro che un sostituto di quello morto!)
Il quarto racconto, La famiglia Starnazza, ci proietta nel mondo della maligna moralità del pettegolezzo della “brava gente borghese”; non importa la verità dei fatti, la conclusione delle vicende umane che esso finisce per provocare.
Uno di noi, e L’uomo dei coperchi sono due racconti che penetrano nel rapporto che c’è fra l’uomo e il lavoro: il primo accompagna l’uomo contadino che vive fra le montagne dove quella che sembra una prigionia, l’impervietà delle salite che lo circondano, di fatto si rivela essere l’unica libertà possibile; il secondo ci racconta di un uomo che lavora alla catena di montaggio, e che si identifica col proprio lavoro e quindi con la stessa fabbrica, come se la fabbrica potesse sopravvivere solo in virtù della sua opera, ed egli stesso potesse sopravvivere in virtù del suo lavoro nella fabbrica. Il momento della pensione, dopo 43 anni di lavoro e 60 anni di vita giunge come una rottura, e la morte lo sorprenderà poco dopo circondato dagli amati oggetti del suo lavoro.
Il maiale col fiocco ci porta nell’ambiente ciclistico, nel corso di una sonnolenta tappa. A un povero gregario l’orgoglioso capitano della squadra decide di fare uno scherzo. Lo informa che di lì a pochi chilometri c’è un traguardo volante che offre al vincitore un maiale col fiocco, e lo invita a fare una fuga per attribuirsi il premio. Il gregario, che in anni di attività non ha mai visto la strada, ma solo il sedere dei colleghi del gruppo, si sente finalmente libero, può correre, vedere davanti a sé il nastro d’asfalto. E così corre, corre, il suo vantaggio sul gruppo aumenta. Il traguardo annunciato non si vede, non c’è; tutti si premurano di frenare la sua corsa e di informarlo dello scherzo. Ma la libertà raggiunta è troppo bella. Il gregario non molla e, nonostante che il gruppo cominci a ridurre il distacco e ad avvicinarsi, ormai pensa di potercela fare a tagliare il traguardo definitivo per primo. E lo farà, e sarà il suo ultimo traguardo, perché al termine della gara verrà licenziato per insubordinazione e costretto a tornare alla sua vita dei campi.
I ragazzi di quarant’anni. Chi sono? Ragazzi solo nel nome: ormai le illusioni sono svanite. Qualunque sia il mestiere o la professione che esercitano, la vita li ha ingoiati, “si sono dimessi dall’illusione e girano gli angoli per accecare la verità”.
Problema. Sul muro di un condominio compare una scritta offensiva: “Valentina puttana”. Su questa scritta gira il mondo del condominio, si fanno le indagini, si scopre che le Valentine sono tre, che tutte sono brave, normalissime ragazze, ma tutte con qualche possibilità di essere la vittima della scritta. La soluzione la troviamo nel gesto di un innamorato che vorrebbe scrivere sul muro una frase d’amore, ma che, quando vede la ragazza di cui è innamorato abbracciata ad un altro, cambia l’amore in insulto. Ma quale delle tre Valentine sia l’oggetto della scritta, non si sa. D’altra parte ha importanza solo per chi l’ha scritto. Per gli altri no.
Se fossi mio figlio. Lo sfogo di un padre che invecchia senza avere la gioia di vedere continuare la famiglia nei nipotini. I suoi due figli non sono sposati, né sono in condizione di mettere al mondo la sospirata discendenza. Uno fa il prete, missionario in terre lontane, e l’affetto per il padre si stempera nella maledetta fretta di chi molto da fare. Il secondo è in carcere a scontare vent’anni per un banale e stupido omicidio. E il padre amaramente riflette su questi due figli che lo hanno abbandonato. “Se io fossi mio figlio mi sarei fatto il piacere di essere un medico” inizia il racconto che poi conclude: “Intanto nel continuo del trascorrere, girerà sempre un rimpianto di due ambulatori vuoti, dove mancheranno per sempre due medici generici”.
Brutti sgabuzzini. È il quadro dei sentimenti dei bambini che, per punizione, vengono rinchiusi in un buio sgabuzzino. I loro pensieri son ben lontani da quello che crediamo che essi pensino, e da ciò che ci aspettiamo dal provvedimento punitivo. Non si tratta di ribellione, ma di disprezzo che si configura nel proposito di non far subire ai propri figli una simile umiliazione: proposito che verrà poi dimenticato al momento di adempierlo.
Una boccata d’amore. Il rapporto fra la sigaretta e l’oggetto del proprio amore.
Succo d’aceto. Si ritorna ai bambini. Quelli che ci appaiono infelici, vittime dello sfruttamento degli adulti, che sono ben ultimi nella catena dei lavori umili. Ma anche loro cercano e trovano un angolo di felicità: il sogno che un giorno saliranno la catena, arriveranno a comandare, a costruire palazzi alti come il cielo. Ma ora la realtà offre solo fatica, precarietà, basso salario, assenza di misure di sicurezza. Così il bambino, prima di realizzare il suo sogno, precipiterà dall’impalcatura e sarà sostituito da un altro bambino, con gli stessi sogni, la stessa fatica, la stessa misera vita forse anch’essa destinata a non durare a lungo.
Vola l’ucraino. Il morto (suicida?) precipitato dal palazzo disturba la veduta della piazza, viene coperto da un lenzuolo, e finalmente viene portato via. E fra le sue cose si trova una lettera d’amore, il desiderio di poter realizzare una vita normale, con la moglie, la casa, la macchina di seconda mano, il videoregistratore… sogno troppo lontano, che puo’ essere risolto solo dal volo finale, quello che per un attimo turberà la bellezza della piazza.
Quello che caratterizza questi racconti è l’asciuttezza, l’essenzialità del quadro. I racconti, tranne quello del figlio morto in un incidente stradale, sono molto brevi. Viene riportata la situazione, espressi i sentimenti che vi si riferiscono, trasmessa l’emozione del protagonista. Non ci sono divagazioni, descrizioni collaterali. Tutto è molto diretto, immediato. La situazione potrebbe essere vissuta dal lettore nel momento in cui legge.
Finalmente un grande raccontatore italiano. Quanto siamo lontani dagli sgnolamenti del romanzo di Maggiani, Il viaggiatore notturno, che ha vinto il premio Strega!
Vincitore ex-aequo con Il sopravvissuto di Antonio Scurati del Premio Campiello 2005