IL PÉLLEAS ET MÉLISANDE, alla Scala

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Il Pelléas è un’opera sulla quale vi sono pareri molto discordi. C’è chi la ama moltissimo, come me; c’è chi la trova noiosa, come diverse persone che conosco. In verità io credo che sarebbe sbagliato aspettarsi emozione dalla musica del Pelleas. Quello che potrei dire è che questa musica, più che essere emozionante, è affascinante, proprio nel senso francese di “charme”. Le armonie continuamente cangianti, i colori orchestrali sempre inattesi, il declamato che galleggia sul suono orchestrale e lo collega agli eventi scenici, alle riflessioni dei protagonisti, sono offerti con una tale raffinatezza espressiva, che, se si deve per forza fare un paragone, lo farei con i paesaggi di Monet.

Il problema drammaturgico è espresso dal complesso simbolismo di Maeterlinck, che si sviluppa in una vicenda fondamentalmente statica, mentre gli episodi, e anche veri e propri colpi di scena, si realizzano in frequenti cambiamenti di quadro collegati fra loro da ricchi, brevi interludi orchestrali.

Il cuore del simbolismo di Maeterlinck è il contrasto e la convivenza fra il lato oscuro dell’anima umana e quello luminoso. Il primo è incarnato da Golaud, dal suo amore “materiale” per Mélisande, e poi dalla sua gelosia; il secondo dall’amore puro e infantile di Pelléas. La musica di Debussy sottolinea questi due aspetti: accordi cupi ci accompagnano nel bosco dove Golaud va a caccia; oppure nella triste oscurità del castello dove non si vede mai il cielo; o nelle grotte sotterranee. In contrasto colori luminosi e iridescenti ci accolgono quando sulla scena ci viene offerto il nascere prima dell’amicizia e poi dell’amore fra i due ragazzi: al bordo della fontana quando Mélisande perde l’anello regalatogli da Golaud; nella notte magica della la torre e della cascata di capelli; o nell’ultimo duetto d’amore prima che Golaud in preda alla gelosia uccida Pelléas.

Il regista (Pierre Médecin) ha voluto, in questa messa in scena, rimarcare il più possibile questi due aspetti contrastanti e conviventi nel simbolismo dell’opera.

Il palcoscenico è diviso in due da una quinta mobile, sulla quale è raffigurata una scena crudele di caccia (cani che azzannano un cervo in difficoltà).

La parte anteriore, subito dietro il boccascena è lo spazio di Golaud, nelle vesti di ricco signore dei primi del novecento, con la sua poltrona, alcuni libri, la bottiglia di cognac, il trofeo di un cervo, il fucile, etc. E’ l’uomo nella sua quotidianità, nella sua materialità, diciamo “a colori”. In questo spazio Golaud è sempre presente, anche quando la vicenda si svolge senza la sua presenza fisica.

La vicenda vera e propria si svolge nella parte posteriore del palcoscenico, dietro la quinta, che ad ogni quadro si apre. Qui il mondo reale, materiale di Golaud lascia il posto al mondo immateriale del sentimento, del sogno, dell’anima. I due colori che dominano sono il bianco (i vestiti di Pelléas e di Mélisande, la fontana che rappresenta il volto di una fanciulla immersa nella tristezza, il sottile strato di acqua che ricopre il palcoscenico) e il nero (le pareti del castello, la grotta, i sotterranei, i grandi portali di bronzo che si chiudono). La luce radente, da un lato, oppure dall’alto o anche frontalmente con magici effetti di ombre, accentua l’irrealtà del paesaggio, sottolineandone il significato simbolico.

La scena più famosa, quella della torre, è resa molto bene sullo sfondo di una notte fittamente e vivacemente stellata, nella quale, sui glissandi dell’arpa, si materializza nel cielo una cascata di linee luminose che simboleggiano a loro volta la caduta dei capelli di Mélisande.

Tutto questo potrebbe anche essere interpretato come un sogno, forse un incubo, di Golaud, la cui vita viene spezzata da un amore che si rifugia in una gelosia senza soluzione.

La direzione di Pretre è stata magistrale. Non solo ha offerto una interpretazione impeccabile della musica di Debussy (devo immaginare quante volte deve avere diretto quest’opera!), ma mi ha commosso vedere quest’uomo, di ben 85 anni, ancora pieno di energia e di entusiasmo, condurre senza esitazioni l’orchestra per tempi lunghissimi (l’opera e’ stata data con un solo intervallo, fra il terzo e il quarto atto, in modo che la durata complessiva della prima parte è stata di un’ora e quaranta minuti, e quella della seconda di un’ora e dieci minuti).

I cantanti sono stati all’altezza, senza tuttavia entusiasmarmi troppo. La loro recitazione, tutta impostata sul declamato, mi è sembrata un po’ rigida, in alcuni tratti forzata. Mi aspettavo di vedere la Mireille Delunsch nella parte di Mélisande, dopo averla ammirata nella Traviata del festival di Aix-en-Provence del 2003. Sabato sera invece la protagonista è stata interpretata da Marie Arnet, da molti considerata migliore della Delunsch.

Per completezza dirò che Pelléas era Russel Braun, Golaud François Le Roux, Arkel Alain Vernhes, Geneviève Brigitte Balleys.

Purtroppo occorre dire che l’inizio dell’opera è stato turbato da un episodio sgradevole. Un rappresentante sindacale ha fatto precedere l’inizio dell’opera da un comunicato nel quale si criticava il taglio del FUS presente nella finanziaria del governo come un torto fatto alla cultura. Il comunicato è stato interrotto da violente reazioni di alcuni spettatori al grido di “Basta!”, ciò che a sua volta ha provocato la reazione di altri spettatori, che invece hanno rimbeccato i contestatori e quindi lungamente applaudito il comunicato.

Personalmente non ho approvato l’interruzione (che ha portato solo tensione in teatro, stato d’animo non molto adatto per ascoltare musica e soprattutto il Pelléas), tuttavia ho trovato il comunicato sindacale decisamente prolisso, nella pretesa di voler spiegare al pubblico della Scala il significato della cultura.

Domanda cattiva: ma forse aveva ragione?

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