Jenufa alla Scala

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Finalmente dopo aver a lungo atteso, dopo avere assistito senza alcun entusiasmo alle opere della prima parte della stagione, opere non esaltanti né per scelta di titolo e ancor meno per l’esecuzione, ho potuto gustarmi la Jenufa di Janacek, opera che non credo azzardato considerarla fra i capolavori del Novecento.
Dico gustarmi non solo per la bellezza dell’opera, ma anche per una esecuzione all’altezza, sia per quanto riguarda la parte musicale che quella registica.

L’opera. È stata costruita da Janacek sul dramma della Preissova, dramma tipico di una civiltà contadina dove l’onore, e quindi il futuro della fanciulle, era affidato alla loro verginità prematrimoniale. A maggior ragione la vita della fanciulla veniva pesantemente compromessa se, oltre alla perdita della verginità, diventava madre al di fuori del matrimonio. E qui si innesta la vicenda di Jenufa, dello sfregio che le viene fatto da uno spasimante e che le costa il ripudio da parte del promesso sposo; e della disperata protezione da parte della sua madre di latte, la Sagrestana o Kostelnicka, che riesce a farla partorire di nascosto e che non esita, nonostante la sua profonda religiosità, a sopprimere il piccolo (“Farlo ritornare al Signore” è la sua espressione) per salvare il possibile matrimonio della sua figlia di latte.
Il dramma è cupo, si potrebbe definire “verista” (si pensi, ad esempio alla Cavalleria rusticana, o i Pagliacci, tanto per citare opere ben conosciute, anch’esse di ambiente contadino, con tutti gli ingredienti del caso) se non fosse per un terzo atto che, nonostante le tragiche premesse, apre il cuore alla speranza attraverso il perdono e l’amore.

La musica è bellissima. Dal punto di vista strutturale è una ragnatela di frammenti tematici che si intersecano, si fondono, si dipartono, si ricongiungono per formare temi che esprimono di volta in volta ansietà (vedi ad esempio l’aria di apertura di Jenufa che aspetta di sapere se il suo Steva, che l’ha messa incinta sarà scartato dal servizio militare e quindi la potrà sposare salvandole onore e vita), disperazione, supplica (stupenda l’aria con la quale la Kostenicka cerca di straziare il cuore di Steva con l’immagine del bambino, delle sofferenze di Jenufa, e indurlo a un matrimonio che il giovane ha già definitivamente ricusato), o di dolce speranza nell’amore che provoca il perdono, come ad esempio il dolcissimo tema che chiude l’opera. Anche dal punto di vista strumentale ai variegati timbri dell’orchestra in più di un episodio si contrappone o si aggiunge il violino solista con la commozione cui questo timbro può dare adito. Per mantenersi nel clima contadino, Janacek introduce in diverse occasioni (nel primo e nel terzo atto), canti popolari di origine morava (mi pare) di grande bellezza.
Si dice che la musica di Janacek da una parte richiami Wagner (soprattutto nell’importanza dell’orchestra nella costruzione dei temi che dominano la vicenda), ma, dall’altra, anche Puccini (per l’intensità della commozione nei diversi episodi e per il trattamento emozionato delle figure femminili). Credo giusto condividere queste opinioni.

La messa in scena della Stephane Braunschweig mi è piaciuta moltissimo. Qualcuno, vista l’assenza di arredi scenici, di paesaggio, di sfondi, etc, la definirebbe “minimalista”, termine brutto che sottintende una forma di disprezzo rispetto alla sontuosità delle scenografie di tipo hollywoodiano.
La scena, praticamente unica, anche se variata nei tre atti, è costituita da pareti di legno scuro, nero con variegature sul bruno. Il clima è quello della tragedia, lugubre, funebre, direi. Nel primo atto le pareti formano le quinte e lo sfondo, delimitando lo spazio nel quale si svolge la prima parte del dramma. Al centro della scena dal pavimento si innalzano, ruotando per breve periodo, grandi pale da mulino per significare il luogo. Nel secondo atto, che raffigura la stanza dove Jenufa, lontano dagli occhi dal mondo, ha partorito, le pareti formano un angolo acuto col vertice sul fondo, e si allargano verso il boccascena, delimitando uno spazio decisamente claustrofobico. Al vertice dell’angolo un lettino bianco fortemente illuminato ricorda la presenza del figlio neonato di Jenufa. Quando la Kostelnicka prende la fatale decisione di sopprimerlo, nella speranza di dare un futuro alla sua figlia di latte, le pareti laterali si aprono, e scende un neve che rompe la sensazione di claustrofobia e sembra aprire una speranza, ma fa pensare anche alla morte per assideramento del piccolo. Nell’ultimo atto la scena torna ad essere uguale a quella del primo atto, ma, per la presenza di panche ben ordinate, assume l’aspetto dell’interno di una chiesa, aspetto confermato da una fascia verticale rosso vivo sul fondo, che dopo la scoperta della morte del bambino, assume anche il braccio orizzontale diventando una grande croce, che simboleggia la presenza della redenzione attraverso l’amore: amore dei nuovi coniugi, ma soprattutto l’amore della Kostenicka per la sua figlia di latte.

L’esecuzione musicale è stata splendida.
Anzitutto Lothar Koenig ha dato un impronta di grandissima chiarezza. I frammenti tematici, (e la loro ricostruzione in temi maggiori), vengono svolti ponendo in evidenza le diverse componenti timbriche, e accompagnando le voci in modo da far risaltare in modo significativo le parole e il loro significato.
I cantanti sono stati tutti all’altezza, con due vertici spettacolosi: Anja Silja nella parte della Kolstelnicka e Emily Magee nella parte di Jenufa. La Silja, la avevo già apprezzata nel video tratto da Glyndebourn. Vista a teatro, ovviamente è un’altra cosa. Direi che la Silja incarna alla perfezione quella che è la mia idea di cantante operistica. Entra nella parte, la fa vivere, la trasmette direttamente all’ascoltatore. Il canto è il linguaggio che si fonde con l’espressione del viso (in seconda fila è ben visibile), con la gestualità, con le movenze sceniche. Fa esattamente, con il canto e la musica, quello che su un altro palcoscenico farebbe un grande attore di prosa: recita, interpreta.
Anche Emily Magee ha dato vita ad una Jenufa splendida, carica di tensione, capace di trasmettere quell’intrico di sentimenti positivi e negativi che una vicenda come la sua fa scaturire in una società statica e severa come quella contadina. Sul merito delle voci non entro. A me sono sembrate molto buone, sia pure con qualche problema di intensità nei timbri bassi della Magee, troppo spesso coperti dall’orchestra. Ma forse, come alcuno ha osservato, questo più che un difetto della cantante potrebbe essere dell’orchestra, o meglio, del fatto che, ascoltando stando seconda fila l’orchestra in certe condizioni, tende a prevaricare le voci.
Di ottimo livello mi sono sembrati anche gli altri protagonisti: i due tenori che interpretano Laca (Miro Dvorsky) e Steva (Ian Storey).

Applausi entusiasti alla fine hanno salutato uno spettacolo bellissimo e molto emozionante.

Analisi di John Tyrrell riportata su LP Decca (direttore: Mackerras): Leoš Janàček: Jenůfa

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