Teneke di Fabio Vacchi alla Scala
Quando, qualche mese fa lessi il romanzo di Kemal, oltre al gusto della lettura di un piccolo capolavoro, ebbi anche una sensazione di deja-vu. Cercare di applicare la legge in un paese dove i potenti si sentono impunibili e di conseguenza, impuniti, non solo è difficile, ma soprattutto pericoloso. E in Italia, episodi di questo tipo sono molto frequenti. L’ultimo in ordine di tempo lo stiamo vivendo proprio in questi giorni sui giornali e alla TV, ed ha come protagonista un magistrato di Catanzaro che osa, ahilui, chiedersi dove siano finiti i fondi europei per la costruzione di depuratori e impianti di smaltimento rifiuti in Calabria (non in Cina), visto che a tutt’oggi non ne esiste neanche uno, e per il quale viene chiesto il trasferimento con urgenza.
Il romanzo di Kemal, Teneke (che va pronunciato con l’accento sulla ultima “e”, che in turco significa “latta” e che nel romanzo sta ad indicare delle scatole di latta usate come tamburi) dal quale Marcoaldi ha tratto, mi pare in modo molto fedele, il libretto dell’opera per la musica di Fabio Vacchi, racconta le vicende di un magistrato, un viceprefetto, un Kaymakam (ho così scoperto che questo nome non è un’invenzione di Rossini nell’Italiana in Algeri ) che, nel tentativo di far applicare la legge nel territorio di sua competenza, si incontra e si scontra con poteri forti che alla fine riescono a farlo trasferire. Siamo in una pianura dell’Anatolia, territorio arido, poverissimo, percorso da un fiume. Un gruppo di proprietari terrieri pensa che si possano utilizzare le acque del fiume per promuovere la coltivazione del riso e in tal modo realizzare ingenti guadagni. Ma c’è un problema: per far questo occorre inondare la pianura con conseguenze nocive per la popolazione ivi residente: anzitutto la diffusione dell’anofele e quindi della malaria, con grande aumento della mortalità soprattutto infantile; e in secondo luogo la distruzione dei villaggi, le cui case non reggono alle prolungate inondazioni.
Per dare l’avvio alla coltivazione, e quindi alle inondazioni, occorrono le autorizzazioni dello stato, che devono essere date nel rispetto della legge. E la legge pone guarentigie in difesa della popolazione che mettono un limite alla coltivazione estensiva e quindi ai giganteschi profitti che i proprietari si propongono di realizzare.
Il giovane funzionario Irmaklï, arrivato fresco fresco di nomina, ha proprio questo compito e questa responsabilità: quella di rilasciare le autorizzazioni. I proprietari lo accolgono trionfalmente, lo ospitano nella più bella casa del paese, lo adulano, e nello stesso tempo lo sollecitano a firmare. Il giovane Kaymakam pensa che un’attività economica come quella del riso possa portare grandi benefici alla popolazione e quindi non esita a dare i necessari permessi. Ma ben presto la verità viene a galla. Malaria e inondazioni peggiorano la vita dei contadini e si sparge la voce che il nuovo funzionario, come tutti i suoi predecessori, sia corrotto dalle “mazzette” dei proprietari. Irmaklï si rende conto dell’errore commesso, e impone una brusca svolta alla sua politica, imponendo d’ora in poi il rispetto delle norme di guarentigia. La cosa tuttavia non è semplice, solleva l’ostilità dei proprietari, ed egli viene a trovarsi sempre più solo. I soldati ai suoi ordini che dovrebbero intervenire, vengono sistematicamente corrotti; i contadini, quelli più danneggiati, anziché unirsi e dare battaglia a sostegno dell’opera del funzionario, si impauriscono, vendono le loro case e fuggono in altre regioni; gli stessi suoi collaboratori della prefettura sono come paralizzati dal terrore. I proprietari, ottenuto l’isolamento del funzionario, hanno buon gioco a chiedere ad Ankara il suo trasferimento che puntualmente avviene fra le acclamazioni della folla e il suono dei tamburi di latta, appunto i teneke.
Attorno al Kaymakan ruotano alcuni personaggi: Resul, suo impiegato alle soglie della pensione, terrorizzato dal potere dei proprietari; Zenyo, una contadina vedova che per un momento prende la testa di una rivolta contro i proprietari; il contadino Curdo, ex bandito, ora anziano, duro, capace di non cedere, ma solitario e poco efficace nella lotta; e infine Nermin, la fidanzata del Kaymakam, che pur essendo lontana dal luogo della vicenda, è presente come voce della coscienza per il funzionario e lo aiuta nella battaglia. Molto bello, nel terzo atto, il duetto “vale la pena”, dove Irmaklï, preso dai dubbi e un po’ anche dalla paura, si chiede se è opportuno continuare nell’atteggiamento di rigore e correre gravi rischi anche personali. La sua coscienza, nella voce delle fidanzata, gli risponde, appunto, che “ne vale la pena”.
Il personaggio di Nermin è la deviazione più importante del libretto dal romanzo. Marcoaldi, fa materializzare il personaggio in scena, e la sua presenza è costante e importante nell’economia del lavoro.
Dal punto di vista drammaturgico, l’opera, secondo me, è molto ben costruita: accanto ad una consistente unità di tempo e di luogo, l’arcata si distribuisce sui tre atti in modo che il primo atto serve soprattutto ad ambientare l’azione, con l’arrivo del Kaymakam, la sua presa di contatto con i proprietari, il problema della coltivazione del riso e quello della diffusione della malaria. Nel secondo atto la concessione delle licenze porta all’inondazione del villaggio, alla rivolta dei contadini che rappresenta un po’ il momento culminante, e alla presa di coscienza del Kaymakan. Nel terzo atto si realizza la solitudine del funzionario fino all’epilogo del suo allontanamento.
Non tutti i personaggi, secondo me sono comunque perfettamente riusciti. Resul, il timoroso impiegato di prefettura, e Okçuoglu, il capo dei proprietari, dalla gentilezza ambigua e viscida, ma anche dalla protervia violenta, sono quelli che mi sembrano più efficaci. Ugualmente dicasi per la contadina Zenyo, nella sua breve ma fondamentale apparizione alla fine del secondo atto. Il protagonista Irmaklï forse mi ha dato l’impressione di essere un personaggio un po’ incolore. Nermin è un personaggio fantasma che prende parte all’azione solo come coscienza di Irmaklï, e in questo mi è sembrata molto intensa: si potrebbe quasi affermare che la figura di Irmaklï prenda vita proprio attraverso le comparse di questa non-persona. Esemplare sono la sua aria alla fine del primo atto e soprattutto il suo duetto del terzo atto, nel quale Irmaklï prende la decisione di non mollare. Una vita intensa hanno i due cori: quello dei proprietari e quello dei contadini. Il primo di voci solo maschili ha una funzione quasi responsoriale agli interventi di Okçuoglu (diciamo che è un po’ la base del suo potere); il secondo è di voci miste, nel quale i timbri femminili sembrano prevalere, e si presenta come un lamento posto in un secondo piano rispetto alle altre voci, quasi a significare il ruolo passivo della popolazione contadina nei confronti delle decisioni che poi riguarderanno direttamente la loro vita. Solo alla fine del secondo atto, trascinati da Zenyo, il coro dei contadini assumerà un ruolo da protagonista, per spegnersi tuttavia nel terzo atto.
L’orchestra ha un ruolo fondamentale, rivestendo la vicenda di timbri cangianti che si avvertono in piani differenti, e che danno vivacità e consistenza all’azione. Difficile farne una descrizione: strumenti a fiato e strumenti a corda si alternano e si mescolano accompagnando ma anche separando gli interventi della voce, collegando le diverse scene. Di particolare bellezza mi sono sembrati l’assolo di violino che accompagna in melodramma il parlato di Irmakrï quando questi, alla fine del secondo atto, prende la decisione di ostacolare le illegalità dei propietari; e l’assolo di violoncello che accompagna la sua constatazione, nel terzo atto, della solitudine e che troverà poi la forza di proseguire nel duetto con Nermin.
Diversi critici hanno notato che nella musica di quest’opera Vacchi è ricorso a diverse citazioni. Io non ho la cultura sufficiente per identificare la maggior parte di quelle. Tuttavia, con un sorriso un po’ divertito mi sono trovato, all’inizio del terzo atto, nel corso del primo duro scontro fra Irmaklï, Okçuoglu e il coro dei proprietari, davanti a un ensemble che è una esplicita parodia del sestetto rossiniano della Cenerentola.
La messa in scena ad opera di Ermanno Olmi, con scene e costumi disegnati da Arnaldo Pomodoro: molto bella nella sua asprezza. Nel primo e secondo tempo il paesaggio è degradato, arido, ondulato, ostile, del colore delle terra sterile, asciutta, priva di vegetazione. Questo paesaggio circonda al centro una piattaforma rettangolare che di volta in volta rappresenta un interno (privo di arredi): l’ufficio, la casa confortevole che i proprietari danno a Irmaklï, l’ambulatorio del medico, etc. Lì si svolgono i dialoghi, gli scontri fra le persone, lì vengono portati i grandi faldoni delle richieste di autorizzazione, etc. Il coro dei contadini, tuttavia, non ha mai accesso a quest’area e si situa sempre ai lati dove appunto c’è l’aridità del deserto. Nel secondo atto il paesaggio è simile, con la differenza che è in gran parte allagato. Questa acqua non è quella che porta gioia e ricchezza, ma è acqua stagnante, lurida, e il paesaggio appare ancora più degradato rispetto ai primi due atti.
L’esecuzione: un plauso particolare mi sembra che vada dato all’orchestra. Roberto Abbado ha saputo far emergere con grande evidenza tutta la ricchezza timbrica e tutta la stratificazione sonora, attirando con grande interesse l’attenzione, e offrendo una eloquentissima descrizione degli eventi.
Le voci: a me sono sembrate tutte di ottimo livello, a partire dalle arie di Nermin, nelle quali Rachel Harnisch ha sfoderato un ottimo virtuosismo, all’intensa declamazione di Okçuoglu nella persona del basso Nicola Ulivieri, alle lamentazioni di Resul Efendi (Andrea Concetti) a volte con la vena di un basso buffo rossiniano (penso alla sua reazione all’assedio dei proprietari proprio all’inizio dell’opera), e all’intensità della contadina Zenyo (il mezzosoprano Anna Smirnova). Steve Davislim nel ruolo del protagonista ha offerto una buona prestazione con un timbro di voce a mio parere molto bello.
Occorre constatare che la frequenza a teatro, almeno nella serata in cui sono stato presente, non è stata foltissima, ma tuttosommato accettabile, per un’opera contemporanea. Gli applausi finali sono stati, almeno all’inizio, un po’ incerti, ma in fin dei conti poi abbastanza sinceri.