The Road to Guantanamo di Michael Winterbottom

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Su Guantanamo e i suoi orrori già da tempo si è stati informati da stampa e televisione. Sappiamo che è un luogo di torture, che chi vi è rinchiuso non ha alcun diritto (e nemmeno un capo d’imputazione da cui difendersi); sappiamo che non è l’unica enclave dove sospetti terroristi vengono detenuti e torturati, e che prigioni simili sono disseminate un po’ ovunque al di fuori delle territorio degli Stati Uniti (si dice in alcuni stati dell’Europa orientale, ad esempio Polonia, ma anche in alcuni paesi arabi, come l’Egitto); sappiamo di rapimenti illegali di persone sospettate (non si sa da chi né di che cosa), come è avvenuto per Abu Omar qui in Italia, spedito in un carcere egiziano dove è stato ferocemente torturato, (cosa per cui sono stati rinviati a giudizio 26 agenti della CIA, impuniti e ovviamente impunibili, e, nientemeno che, il capo del servizi segreti militari italiani, generale Pollari); sappiamo degli orrori del carcere di Abu Ghraib. Abbiamo visto fotografie, in cui fanciulle in divisa dall’aria apparentemente innocente e dal sorriso candido torturano prigionieri iracheni senza batter ciglio, che hanno fatto il giro del mondo grazie ad Internet; sappiamo tutte queste cose, le commentiamo con orrore, ma subito dopo pensiamo alle cose nostre. In fin dei conti, si pensa, c’è una guerra in corso, ci sono terroristi assassini, c’è la nostra sicurezza minacciata da difendere… anche se si fa qualche eccesso, tutto sommato… Protestare è giusto, ma la vita va avanti, ed è questo quello che conta.

Vedere il film dell’inglese Winterbottom dà tutta un’altra sensazione. Il film ricostruisce in parte con documentari, in parte con una ricostruzione girata nei luoghi, la vicenda di quattro amici inglesi d’origine pakistana.
La storia: Uno di loro deve partire per il Pakistan, andare al villaggio natio per sposarsi. Con lui partono, per accompagarlo, tre suoi amici: è un’occasione per fare una visita al paese natale, respirare per qualche giorno l’aria “di casa”. Siamo nell’autunno del 2001. Da poco c’è stato l’11 settembre. Si parla dell’intenzione di Bush di attaccare l’Afganistan e della grande preoccupazione della popolazione di quel paese. Per le vie delle città pakistane ci sono manifestazioni in appoggio e difesa dei fratelli afgani. I quattro giovani, pieni di entusiasmo e di ardore giovanile, pensano che la loro presenza nel paese vicino possa essere di aiuto, e così partono. Si recano prima a Kandahar, poi a Kabul, assistendo a bombardamenti di vario tipo; tuttavia si rendono conto che questa è una guerra un po’ particolare. La chiave di volta è rappresentata dai bombardamenti. La loro presenza non sembra essere d’aiuto per ridurre le sofferenze della popolazione. Non sanno proprio che cosa fare. Pensano di tornare in Pakistan, e cercano un mezzo idoneo; ma cadono in una specie di trappola organizzata dai Talebani, e finiscono così in una zona calda del fronte nel nord del paese, dove sono testimoni della crudeltà della guerra, quella combattuta, con ammazzamenti, ferimenti, bombardamenti, e chi più ne ha più ne metta. Sono terrorizzati, cercano di sopravvivere scappando. Uno di loro si disperde. Lo perderanno di vista e non ne sapranno più nulla. Alla fine a seguito di un’offensiva dell’Alleanza del Nord e della rotta dello schieramento talebano, i tre ragazzi, assieme a tanti altri, vengono fatti prigionieri.

Qui comincia la loro Road to Guantanamo. Un cristiano direbbe la loro “Via Crucis”. Maltrattati, legati, picchiati, minacciati di morte ad ogni momento, fatti marciare per chilometri e chilometri assieme a centinaia, migliaia di prigionieri talebani ed ex-guerriglieri, lasciati per giorni senza cibo e senza acqua, caricati e ammassati su camion, chiusi e sigillati dentro container con tassi di umidità spaventosi, mescolati a moribondi e morti, finalmente arrivano in un luogo dove sono attesi dagli americani. I nostri tre ragazzi fanno sapere di essere di nazionalità inglese, e per questo vengono immediatamente presi in consegna dagli statunitensi. Ciò fa sperare in miglioramento delle condizioni. Gli americani hanno sempre goduto fama di trattare in modo umano i prigionieri di guerra. E questa non è un’utopia. I miei ricordi della seconda guerra mondiale confermano questa impressione sugli americani, soprattutto in confronto ai maltrattamenti, alla brutalità, addirittura alla bestialità dei trattamenti di cui si sentiva parlare nel campi di prigionia nazisti.

Mai speranze sono state così mal riposte. Fin dai primi momenti il trattamento è stato di una brutalità sconcertante. I ragazzi vengono immediatamente sospettati, senza alcun elemento di reale sospetto, se non quello di essere cittadini inglesi, di essere guerriglieri di Al Qeida e quindi di essere terroristi assassini (come si sente dire a Bush in una breve spezzone all’inizio del film). Da quel momento la pressione psicologica e fisica sui tre ragazzi si avvia in un crescendo terrificante. Rivestiti da una tuta arancione, coperti da cappucci neri che impediscono di vedere, sempre legati mani e piedi, costretti a stare in ginocchio, numerati e chiamati per numero, puniti duramente per ogni nonnulla, trascinati come sacchi agli interrogatori e poi riportati con la faccia trascinata nella polvere, pistole puntate alla tempia in continuazione, rimangono nella prigione afgana per alcune settimane e quindi trasferiti a Guantanamo.

Qui le condizioni di vita sono, se possibile, ancora peggiori. La prima notizia che ricevono all’arrivo è di essere “proprietà della marina americana”. Le celle sono costituite da gabbie di rete, senza alcuna protezione né dal sole né dalla pioggia. La postura all’interno delle gabbie è obbligata e la più scomoda possibile; è vietato parlare, vietato muoversi, vietato guardare, vietato pregare, vietata ogni cosa, anche la più banale, come mettersi un lenzuolo sulla testa per riparasi dal sole; vengono continuamente richiamate regole spesso contraddittorie e spesso ignote ai prigionieri; ogni infrazione viene punita fisicamente da una squadra di soldati il cui compito è proprio questo (pestaggio scientifico e sistematico); non esiste o è rarissima e quasi mai rispettata la cosiddetta “ora d’aria” in cui è possibile muoversi quel tanto necessario; vengono frequentemente effettuati interrogatori nel quali si passa dalle lusinghe e dalle tentazioni al tradimento, a brutali pestaggi se si risponde ciò che non si vuol sentire dire; vengono comminati lunghi periodi di isolamento, con mani e piedi legati nel modo più grottesco e innaturale possibile, allo scopo di fiaccare la resistenza; i sentimenti religiosi vengo spesso umiliati nel modi più volgari.
In compenso non esiste alcuna garanzia per cui queste persone possano godere dei diritti costituzionali cui ogni persona ha diritto: un capo d’imputazione, un avvocato difensore, un processo legale.

Alla fine , dopo alcuni anni, mi pare quattro, di questa terribile prigionia, i tre ragazzi vengono riconosciuti innocenti e liberati. Tornano in Inghilterra. Tutti e tre confessano che quell’esperienza ha inciso profondamente sulla loro vita. La giovinezza spensierata ha lasciato posto a una valutazione più concreta degli eventi; la fede religiosa si è rafforzata. Insomma, attraverso il trauma di quell’esperienza, è nato in loro un uomo nuovo, più consapevole e più maturo. Purtroppo più nessuna notizia sono riusciti ad avere del quarto amico, presumibilmente morto in una dei bombardamenti nel nord dell’Afganistan, dove sono stati fatti prigionieri.

Per ritornare ai miei ricordi degli anni della seconda guerra mondiale quello che si vede in questo film non ha nulla a che vedere con quella comportamento che attribuivamo agli americani nei riguardi dei loro prigionieri, bensì molto di più con il comportamento che attribuivamo ai nazisti, contro i quali ci sentivamo coinvolti e partecipi alla guerra di liberazione e davamo il nostro entusiastico benvenuto alle truppe alleate che risalivano la penisola e ci liberavano dall’orrore delle SS.

Purtroppo oggi la situazione è cambiata, nel senso che gli Stati Uniti, da liberatori, hanno assunto il ruolo di oppressori, che si arrogano il compito di imporre la loro legge in ogni dove al di fuori dei loro confini sia possibile; e che per far questo non retrocedono neppure quando i codici morali, le regole della democrazia e del rispetto dell’uomo imporrebbero dei limiti, ai quali la maggioranza dei popoli civili crede fermamente e non è disposto a rinunciare.

1 Commento a “The Road to Guantanamo di Michael Winterbottom”

  1. Gucklar scrive:

    Chiedo scusa se mi inserisco qui nei commenti… vorrei fare i complimenti per il sito, ringraziare in particolare per i libretti d’opera, e se possibile mi piacerebbe avere informazioni sulla foto in homepage, il martirio di S. Sebastiano al.. femminile. Mi ha incuriosito, ho provato a cercare un po’ su internet ma non ho trovato nulla. Grazie! saluti

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