IL CACCIATORE DI AQUILONI, di Khaled Hosseini

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Ciò che mi ha spinto a leggere questo libro, oltre alle valutazioni favorevoli sull’autore di buona parte della critica, è stata la considerazione che uno scrittore afghano, sia pure da tempo residente negli USA, racconta una storia ambientata nella sua terra d’origine. E ne fa quasi una saga, a partire dagli anni Settanta fino quasi ai nostri giorni, invitandoci col racconto a entrare nel suo paese per meglio conoscerlo.

L’Afghanistan è un paese del quale sulla stampa quotidiana e alla TV si parla spessissimo, del quale sono note le tragiche vicende che vanno dal colpo di stato che nel luglio del 1973 ha spodestato la monarchia, attraverso il colpo di stato comunista del 1978 e l’invasione sovietica del 1979, la rivolta dei mujahedin e il ritiro dei sovietici nel 1989, fino alla presa del potere da parte del Talebani nel 1996, e la guerra civile e l’invasione degli eserciti NATO nel 2001. In realtà, tuttavia, si conosce poco o nulla di quello che è la vita di tutti i giorni della popolazione, di quali siano i modi di pensare, di quale sia il modello di valori; quali siano i rapporti con l’Islam, la religione più diffusa, i rapporti interni fra le varie etnie e la varie tribù; quali siano state le reazioni alle diverse vicende accadute, e come le diverse vicende abbiamo condizionato, facendolo ripetutamente cambiare, il sentire della gente comune, i loro progetti per quale futuro, ecc. Insomma, per quanto mi riguarda, è un paese tutto sommato ancora misterioso del quale le vicende storiche, filtrate da una stampa più interessata alla propaganda che alla verità dei fatti, si sono imposte alla mia attenzione più come qualcosa riguardante gli interessi internazionali che non la vita quotidiana della popolazione.

I romanzo è la storia di due ragazzi, uno, Amir, di etnia pashtun, figlio del padrone, l’altro, Hassan, d’etnia hazara, figlio del servo. Le loro vicende percorrono una trentina d’anni della storia dell’Afghanistan, dalla caduta della monarchia nel 1973 alla cacciata dei Talebani nel 2001.
Il rapporto fra i due ragazzi è ambiguo e problematico: l’uno, il servo, devoto all’amico-padrone fino al sacrificio del proprio orgoglio se non della propria vita, intelligente anche se analfabeta, attento a prevenire i desideri e le aspirazioni di Amir e impegnandosi, spesso con successo, a realizzarli; l’altro il ragazzo complessato, colto ma di debole personalità, che accetta la devozione dell’amico, ma che ne è anche infastidito perché essa agisce su di lui come una rimprovero vivente e permanente per la sua mancanza di generosità, o meglio per le sua mancanza di coraggio ad accettare pubblicamente e quindi ad esprimere un amicizia che nel profondo sente veramente, ma della quale si vergogna: egli padrone di etnia pashtun a fronte di un servo di etnia hazara.
Sviluppando questo tema il romanzo ci addentra in alcuni aspetti della società afgana, quello, ad esempio, della realtà delle diverse etnie e dei rapporti fra di esse: quella pashtun, l’etnia dominante, di fede sunnita, ha nell’onore della persona inteso più come apparenza che come sostanza, e nell’orgoglio dell’appartenenza, uno dei valori fondamentali; quella hazara, di fede scita, viene invece disprezzata come etnia inferiore, il serbatoio principale dal quale vengono assunti i servi da parte di ricchi pashtun, e accetta consapevolmente il proprio ruolo senza alcun tentavo di ribellione.
I due ragazzi crescono assieme negli anni del colpo di stato repubblicano, senza tuttavia che si riuscisse a capire bene il perché della cacciata del re. Amir, contrariamente alle speranze del padre, anziché crescere sviluppando quell’orgoglio di cui i pashtun vanno fieri, sembra inclinare piuttosto verso la fantasia creativa del narratore di favole, e quindi in prospettiva dello scrittore, ciò che infatti in età più matura diventerà. Questa inclinazione sembra alienargli l’affetto del padre, poco disposto ad apprezzare un temperamento giudicato poco virile ed estraneo alla tradizione pashtun Al contrario il padre sembra riversare un maggior affetto sul giovane servo Hassan, facendo sorgere nel figlio, oltre al già citato complesso di colpa, anche una forma di gelosia.
Accanto ai due protagonisti si muovono personaggi che arricchiscono l’immagine della vita quotidiana, come l’amico di famiglia Rahim Khan o come il giovane teppista Assef, imbevuto di cultura nazista, e fomentatore di una pulizia etnica a danno degli hazara.
Quest’ultimo promuoverà l’episodio che rappresenta un po’ la svolta del romanzo, cioè lo stupro in spregio di Hassan. Amir ne è testimone occulto, ma anziché accorrere in difesa dell’amico, come questi più volte con grande senso di amicizia e devozione ha fatto per lui nel passato, rimane inerte, anzi cerca di non farsi notare, e tacerà l’episodio nella speranza che Hassan ignori la sua presenza al fattaccio, o che comunque non ne parli con il padre né con altri. In questo modo Amir si rende protagonista di un atto di vigliaccheria consapevole: vigliaccheria che egli sospettava di avere nel profondo, ma che ora diventa una certezza e che apre un’atroce ferita nella sua anima. La figura di Hassan, sempre devoto, sempre pronto ad aiutarlo, anche dopo l’episodio dello stupro, diventa l’immagine concreta e vivente di questa vigliaccheria. Amir alla fine, non reggendo più alla sua presenza, si deciderà a costringere il ragazzo ad andarsene, ricorrendo ad un ennesima vigliaccheria e accusandolo di furto.
In prossimità di questi eventi si verifica il colpo di stato comunista, l’invasione sovietica, e quindi si prospetta la necessità per la sua famiglia di fuggire dall’Afghanistan e di cercare di ricostruirsi una vita negli USA.

Nel soggiorno americano Amir si afferma come scrittore, contrae matrimonio con la giovane figlia di un notabile afgano dei tempi della monarchia, assiste alla morte del padre, constata con dolore la impossibilità di generare una discendenza per una “non motivata” sterilità di coppia; assieme alla giovane moglie si orienta per l’adozione. La vita americana sembra svolgersi fra questi problemi, lasciando sullo sfondo, anche se non del tutto sopiti, i dolorosi accadimenti della vita a Kabul.

La svolta giunge improvvisa, con una telefonata dal Pakistan, dove si è rifugiato, per sfuggire al regime dei Talebani, un loro antico amico di famiglia, Rahim Kahn. Amir, capisce che il passato si rifà vivo, e l’atroce ferita si riapre in tutto il suo dolore. Deve rispondere al richiamo e incontrare quest’uomo. Quindi vola a Peshwar, dove apprende che Hassam dopo l’allontanamento dalla sua casa non ha mai desistito dalla devozione nei suoi riguardi; che si è sposato ed ha avuto un figlio, Sohrab; che, assieme alla moglie, è stato ucciso dai Talebani per futili motivi; che il figlio è stato messo in un orfanotrofio a Kabul, assieme ad altre centinaia di orfani in condizioni di vita miserrime. Rahim Kahn, malato e prossimo alla morte, gli chiede un ultimo favore: egli sa dell’atto di vigliaccheria di Amir, ma conosce anche l’atroce ferita che si è aperta nel suo animo. Il modo di poterne guarire è quello di andare a Kabul, di prendere il bambino e portarlo fuori dall’Afghanistan. Amir ha paura. In Afghanistan dominano i Talebani, il viaggio a Kabul può costare la vita. Rahim vince le sue resistenze facendo l’ultima drammatica rivelazione: Hassan era figlio naturale di suo padre, quindi suo fratellastro. Ecco quindi che viene spiegato il motivo delle attenzioni che il padre aveva per il suo servo. Amir capisce ora che andare a Kabul a prendere il piccolo diventa un passaggio obbligato se vuole ricuperare un minimo di rispetto di se stesso. Affronta quindi i pericoli del viaggio, raggiunge l’orfanotrofio ma verifica il bambino non è più presente. Il direttore gli rivela che il bambino è stato “comprato” da un capo talebano al fine di usarlo per i proprio giochi erotici di pedofilia. Amir, disperato ma ora più che mai determinato, affronta il novo rischio, e riesce a farsi ricevere dal capo talebano. Questi risulta essere proprio quel Assef responsabile dello stupro di Hassan e quindi chiave di volta della grande ferita che in un modo o nell’altro lo ha accompagnato per tutta la vita: l’incontro fra i due è drammatico, si sviluppa in una colluttazione fisica nella quale Amir soccombe e sembra sul punto di perdere la vita, quando il piccolo Sohrab con un assestato colpo di fionda ferisce gravemente Assef. Amir esce malconcio ma vivo dall’incontro scontro, e porta con sé il bambino fino a Islamabad.

Ma il lieto fine non è ancora a portata di mano. Le possibilità di portare Sohrab in America e di poterlo adottare sono rese molto difficili dalle leggi americane. Sul piccolo pende il rischio di un ritorno in orfanotrofio. Il piccolo, la cui anima è stata profondamente ferita dalle turpi vicende seguite all’assassinio dei genitori, non regge alla prospettiva e tenta il suicidio. Viene salvato in extremis. Mentre le difficoltà legali vengono appianate in tempi brevi, e diventa finalmente possibile il ritorno in America, l’ultimo trauma sembra aver compromesso definitivamente l’anima di Sohrab, che si chiude in un mutismo che esclude qualsiasi sua partecipazione al mondo esterno, nonostante le premure di Amir e della moglie. Solo dopo un lungo anno, l’occasione di vedere volare un aquilone, reminiscenza di immagini che lo riportano alla sua infanzia assieme ai genitori, sembra riaprire uno spiraglio e ricuperare il piccolo alla vita.

Il romanzo si divide sostanzialmente in due parti. La prima è la descrizione dell’amicizia dei due protagonisti, Amir e Hassan, fino al momento del grande trauma, e, dal punto di vista storico, all’invasione dell’Afghanistan da parte dell’Unione Sovietica.
Una parte intermedia, che narra la vita di Amir in USA, rappresenta un ponte che ci porta alla seconda parte del racconto: il viaggio di Amir in Afghanistan in pieno regime talebano.

Questa mi è parsa la parte più viva del romanzo, con la descrizione della vita sotto il sanguinario regime dei Talebani, con la paura della gente, le ronde, la polizia religiosa pronta ad usare il bastone, le lapidazioni in pubblico, il massacro (raccontato) di migliaia di hazara a Mazar-i-Sharif.
In questa parte lo scrittore ci riserba alcuni colpi di teatro, come la rivelazione che Hassan è il figlio naturale di suo padre con la moglie del suo servo; la scoperta che il Talebano che ha “comprato” Sohrab è lo stesso Assef che ha stuprato Hassan; l’abilità di Sohrab con la fionda, ricevuta in eredità dal padre; il ferimento di Assef nell’orbita in difesa di Amir, che richiama un analogo episodio, anche se solo come minaccia, di cui nel lontano passato è stato protagonista Hassan; il tentato suicidio di Sohrab; il suo mutismo e il suo ritorno alla vita alla vista di un aquilone, il gioco preferito del padre.
Questi colpi di teatro, se da un punto di vista arricchiscono il romanzo di fatti, dall’altro mi sono sembrati piuttosto ingenui e forse un po’ scontati.
Tuttavia non si può non apprezzare un scrittore che nel romanzo “racconta” fatti, vicende, limitando le descrizioni alla funzione di organizzare l’ambiente nel quale i fatti si svolgono. Purtroppo occorre dire che nei romanzi italiani recenti che ho letto, le descrizioni prevalgono sul raccontare i fatti: un po’ come nei film dove la bellezza delle fotografia serve per mascherare la pochezza dell’invenzione.

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