1984, di Lorin Maazel alla Scala
Un problema che mi sembra interessante approfondire è il rapporto che esiste fra un’opera e la fonte dalla quale il compositore dell’opera ha tratto ispirazione. Nel caso di 1984 mi pare che questo rapporto sia molto stretto e che la conoscenza del romanzo di Orwell aiuti molto nella comprensione dell’opera di Maazel. Si potrebbe affermare che l’opera di Maazel è un’interpretazione in un linguaggio differente (quello del teatro musicale) del romanzo stesso.
Anzitutto il libretto. Esso riesce ad estrarre ed a sintetizzare gli elementi sostanziali del romanzo: la descrizione di una società oppressiva dominata da un Partito e da un personaggio misterioso chiamato Grande Fratello; l’uso di tecniche del potere per dominare le coscienze, dalle deformazioni del linguaggio, al bipensiero, alle torture fisiche, alle più terribili torture psicologiche; la storia d’amore fra Winston e Julia; il tradimento di O’Brien, ovvero le trappole della psicopolizia; l’annullamento della personalità e quindi di ogni sentimento proprio dell’identità personale. Tuttavia, proprio perché ai fini di un lavoro teatrale è necessario ridurre la materia del romanzo ai semplici fatti, dando per scontate le acutissime considerazioni di Orwell, mi sembra di poter affermare che l’apprezzamento dell’opera sia maggiore in chi abbia familiarità col romanzo. Naturalmente è impossibile dimostrare questa asserzione; essa è solo una mia convinzione, suffragata tuttavia da vari commenti che ho ascoltato negli intervalli della rappresentazione.
La musica. Quello che colpisce l’ascoltatore è un grande eclettismo stilistico. L’attenzione del compositore è assorbita dagli eventi che egli commenta in modo molto esplicito: dissonanze stridenti laddove
emergono contrasti violenti o le torture, ritmi marziali in certe scene
di massa, canzoncine infantili quando vengono chiamate in causa le
piccole spie, canti da cabaret nelle opportune scene, melodie dolci
nelle scene d’amore, eccetera. Mi è parso di avvertire anche molto
frequentemente l’uso di politonalità, soprattutto nelle scene di massa. L’orchestrazione è molto ricca e variabile e così le dinamiche
orchestrali, sempre in stretta funzione di commento agli eventi. Il
canto è sostanzialmente un declamato, a volte mi è parso addirittura uno sprechgesang, ma non mancano arie e brani d’assieme, soprattutto duetti,
come il duetto fra Winston e Charrington, il duetto d’amore fra Winston
e Julia, e cori. Il coro iniziale, che traduce sulla scena quello che
nel romanzo viene descritto come “i due minuti di odio”, inizia proprio
con le parole “Hate, Hate” e “Blood, blood” e ancora “Kill, kill“, che
vengono sussurrate, quasi come sibilo di serpente, per crescere poi di
intensità fino ad esplodere in ira conclamata, e confluire
successivamente in una specie di inno nazionale di amore verso il Grande
Fratello la cui effige appare sugli schermi. Oppure, alla fine del
primo atto l’incrociarsi in politonalità dei cori dei bambini prolet, delle giovani spie, e delle giovani donne della lega antisesso, e di un bel quartetto maschile (due tenori, un baritono e un basso) che danno
una sensazione di grande movimento. Non mancano episodi musicali intrisi di ironia quando vengono descritti gli aspetti più grotteschi della
società di Oceania, come ad esempio il canto di Syme, che con grande
compiacimento descrive la nascita della ridicola neolingua che dovrà
soppiantare in un prossimo futuro la lingua tradizionale, oppure il
canto di coloratura che l’istruttrice di ginnastica fa dal teleschermo,
mentre esemplifica gli esercizi corporei. La struttura musicale è, direi classica: un primo atto in cui si
alternano scene di massa (la prima, appunto che raffigura i due minuti
di odio, e l’ultima, la scena dei conflitti per strada che sfociano
nell’impiccagione dei prigionieri), con scene di presentazione dei
personaggi principali visti sul luogo di lavoro o in casa propria; un
secondo atto, prevalentemente intimo, dominato soprattutto dalla storia
d’amore fra Winston e Julia e dal truffaldino accordo fra i due e O’Brien; un terzo atto nel quale le vicende precipitano verso l’annullamento della personalità mediante tortura prima fisica e poi
psicologica (la più terribile, quella che rompe anche le più profonde e
radicate sorgenti dell’individualità: non basta obbedire al Grande
Fratello, bisogna anche amarlo!). Le scene sono intervallate da brevi
interventi parlati del teleschermo, preceduti da una fanfara trionfale, che annunciano gli eventi, militari o economici, e che naturalmente sono
sempre grandi successi, anche quando, ad esempio, la razione di
cioccolato viene “aumentata” da venti grammi alla settimana a quindici
(simpatico esempio di “bipensiero”).
La messa in scena. È di Robert Lepage. La struttura scenografica
centrale è costituita da un enorme cilindro chiuso le cui pareti
scorrendo su se stesse mostrano l’interno che di volta in volta
configura la scena in atto. La prima scena, quella dei “Due minuti di
odio“, è rappresentata da uno spazio aperto all’interno del cilindro,
nella quale sono seduti in bell’ordine i membri del Partito: quelli del
Partito esterno con tuta blu (sedie posteriori), e quelli del Partito
interno (quelli che comandano, in sostanza) in tuta nera in prima fila.
Gli uffici del ministero della verità, dove lavora Winston sono sulla
parete esterna del cilindro, per l’occasione divisa in tanti piccoli
spazi dove gli impiegati lavorano, si spostano incessantemente, si
scambiano documenti, ma in sostanza non si sa bene che cosa facciano, se non declamare la loro fedeltà al Grande Fratello. La casa di Winston
(terza scena), e ugualmente tutti gli interni negli altri atti
dell’opera, come il negozio di Charrington e la famosa stanza
sovrastante, nido d’amore di Winston e Julia, o il pub dove canta il quartetto o, nel finale, il bar dell’ultimo incontro dei due
ex-(ormai)amanti, sono mostrati con un apertura parziale del cilindro e comparsa di pareti divisorie all’interno che a raggiera definiscono
degli spazi triangolari, spesso su due piani. Analogamente con
spostamenti delle pareti del cilindro, e della pareti a raggiera,
vengono rappresentate la strada nell’ultima scena del primo atto, la
vecchia chiesa del primo incontro dei due amanti ecc. La camera della
tortura nell’ultimo atto si presenta come un ampio spazio all’interno
del cilindro, quasi interamente occupato da un gigantesco macchinario
che da una parte presenta un lettino al quale viene legato Winston per
essere percosso da fulminanti scosse dolorose; e dall’altra parte, quando
dalla tortura fisica si passa alla tortura psicologica, rotando su se stesso, apre una piccola cella bianca roteante nella quale il povero
Winston viene rotolato in preda a immagini di orde di topi (per Winston sono il massimo terrore possibile) che si addensano sempre più numerosi
e minacciosi.
La successione delle scene avviene senza soluzione di continuità.
In ogni spazio scenico è presente il grande teleschermo con l’immagine
di un uomo dall’espressione tetra (evidentemente il GF), che, preceduto
da una fanfara di trombe, dà luogo alle comunicazioni del partito. I costumi si attengono alla descrizione del romanzo di Orwell. I membri
del Partito interno vestono una tuta nera; quelli del partito esterno
una tuta blu. Abiti miseri e senza caratteristiche sono i vestiti dei
prolet. Le guardie armate presentano divise un po’ evocate su quelle
dell’esercito americano, un po’ sulle immagini dei film di fantascienza,
comunque con la caratteristica delle figure totalmente anonime, quasi
robot.
L’interpretazione. Su questa mi trovo un po’ in difficoltà a riferire. I
movimenti scenici mi sono sembrati buoni. I personaggi rivestono il loro
ruolo con naturalezza. Sia la Gustafson come Julia che Tovej come
Winston hanno impersonato al meglio i rispettivi personaggi. Molto buono
mi è parso anche Margison nel ruolo di O’Brien, la cui voce tenorile ha
espresso in modo efficace la doppiezza dell’uomo. Fra i personaggi di supporto, una citazione mi pare doverosa per Iride Martinez, che ha
interpretato le due parti dell’istruttrice di ginnastica e quella della
donna ubriaca che compare nell’ultimo atto: in entrambi i casi le viene
richiesto un canto di coloratura e una recitazione comica, che riesce a
svolgere egregiamente. Sul direttore d’orchestra credo vi sia poco da dire, visto che è il
compositore in persona.
La reazione del pubblico mi è sembrata non priva di contraddizione. Applausi stentati e freddini alla fine di ogni atto; più convinti alla fine dell’opera, soprattutto all’indirizzo del maestro e dei due protagonisti. Da segnalare per contro una violenta contestazione proveniente dal loggione contro il maestro durante gli applausi che accompagnavano il suo ingresso all’inizio del secondo atto. Il perché, proprio non saprei dire. Evidentemente a qualcuno lassù l’opera non è affatto piaciuta.