Il Prigioniero e il Castello del duca Barbablù alla Scala

IL PRIGIONIERO

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Il Prigioniero è certamente uno dei capolavori di Dallapiccola. Purtroppo c’è da osservare che quest’opera viene eseguita raramente, in Italia ancor meno che all’estero. Di tre registrazioni che ho fatto da trasmissioni radiofoniche, una si riferisce ad una esecuzione del Maggio Musicale fiorentino (Bartoletti, nel 2004), le altre due ad esecuzioni straniere: una austriaca (Melles, 1971), e una svedese (Pekka-Salonen, 1995). Alla Scala, oltre alla rappresentazione attuale, è stato eseguito una sola volta, nel 1962 diretto da Sanzogno.

La trama ci porta ai tempi dell’inquisizione spagnola e alla guerra delle Fiandre, alla fine del XVI secolo. A un ribelle fiammingo, condannato al rogo dal Santo Uffizio dopo inumane torture, e tenuto prigioniero in una oscura cella, viene ventilata la possibilità di fuga. Ma questa speranza si rivelerà solo l’ultima e più crudele tortura. Il prigioniero sarà finalmente condotto al supplizio.

La drammaturgia è straordinaria. L’opera inizia con un prologo in cui la madre del prigioniero, in attesa di poterlo incontrare, vive incubi da sogno, e vede nella figura di Filippo II l’immagine della morte. Nell’incontro tuttavia il figlio confessa alla madre che dopo le terribili torture patite, ultimamente il carceriere sembra offrirgli comprensione, chiamandolo “Fratello”. E infatti, uscita la madre dal carcere, arriva il carceriere che non solo continua a chiamarlo “fratello”, ma gli dà speranza che la Fiandra si sta vittoriosamente ribellando. Uscito il carceriere, il prigioniero scorge che la porta della cella è rimasta aperta, e che davanti a lui si apre la speranza della libertà. Questo punto può essere considerato l’apice della parabola drammaturgica. Il prigioniero percorre il lungo corridoio ed esce all’aperto dove lo accoglie il cielo stellato. Ma ad accoglierlo c’è anche il Carceriere, che non è altro che il Grande Inquisitore, che lo accompagnerà al rogo. Il prigioniero si chiederà esterrefatto: “La libertà?”.

La musica.

Il prologo è introdotto da tre accordi in timbri acuti fortemente dissonanti che ci traducono in termini musicali lo strazio della madre, e che verranno poi ancora ripetuti nella ballata del sogno. L’intervallo che ci conduce alla cella del prigioniero è riempito da un primo intermezzo corale che magistralmente inizia sulla stessa nota con la quale la madre, davanti all’immagine della morte, grida “Mio figlio! Mio fi…”. Nell’incontro fra madre e figlio il tema dominante è rappresentato dal tritono nei registri acuti della voce baritonale sulla parola “fratello” e dal cromatismo che segue sulla espressione “dolcissima parola”. Questo tema, apparentemente consolatorio, in effetti, proprio perché impostato su registri acuti, in realtà sembra piuttosto esprimere una feroce e crudele ironia. E di questo ci si renderà conto alla fine. Il “duetto” col carceriere si basa su una musica molto ritmata in termini militari, con i quali viene rievocata la ribellione della Fiandra, e il carceriere canta un’aria in tre strofe sulla marcia dei pezzenti verso la libertà.

La musica che segue l’uscita del carceriere è affidata in gran parte all’orchestra che descrive dapprima lo stato d’animo di attesa del prigioniero, poi l’eccitazione, con successioni a spirale sempre più intense che accompagnano il percorso del prigioniero lungo il sotterraneo che lo porterà alla sospirata libertà. E qui il canto del prigioniero riprende il tema sulle parole fratello, mentre viene introdotto un altro tema, anch’esso cromatico, sulle parole “Signore aiutami a camminare”. I due temi si incrociano ripetutamente durante il percorso, mentre risuona minaccioso il triplice accordo acuto dissonante del prologo. Al momento di uscire all’aperto c’è un nuovo intervento del coro che poi, in sottofondo accompagnerà l’ultima scena e l’incontro col Grande Inquisitore.

L’esecuzione. La messa in scena di Peter Stein mi è parsa veramente bellissima. Il clima claustrofobico ha dominato per tutta l’opera, per dissolversi solo nell’ultima scena, dominata da un cielo stellato e dal grande olmo al centro del palcoscenico. Nel prologo il palcoscenico vuoto e buio è percorso dalla madre coperta di una velo nero che invoca il figlio. Su uno schermo nel fondo, viene proiettata l’immagine di Filippo II, che si avvicina al boccascena fino a giganteggiare dietro la madre. Durante la ballata del sogno la faccia di Filippo, gradualmente dapprima si trasforma in quella di un gufo rapace e poi in un teschio a significare la morte.

Il coro dell’intermezzo attraversa la larghezza del palco in una processione di preti e frati più o meno incappucciati che innalzano crocefissi, mentre carnefici spingono e frustano gruppi di eretici destinati al rogo con in testa i classici cappelli coniformi. La parte iniziale della processione porta con sé un sipario di tela nera che copre la scena, mentre la parte finale lo rimuove scoprendo la scena successiva, quella della cella, un buco ristretto al centro del palcoscenico, per il resto chiuso da una parete nera. La madre è seduta, e sulla sue ginocchia si vede il corpo nudo e insanguinato del prigioniero, in una postura che potrebbe essere una rappresentazione della Pietà, con evidente significato allegorico.

Nel corso dell’opera i cambiamenti di scena, e cioè dalla cella al lungo corridoio sotterraneo e dal lungo corridoio all’uscita, avvengono sempre tramite il corteo processionale che trascina il sipario di tela nera. Nell’ultima scena il grande olmo dentro il quale è nascosto il Grande Inquisitore, e dal quale uscirà per abbracciare il prigioniero, alla fine si alzerà per scoprire sul fondo una gigantesca pira sulla quale il prigioniero sarà condotto e sulla quale verrà messo al rogo.

Se posso permettermi una critica, non mi è piaciuta una conclusione così esplicita. Che il prigioniero sia destinato al rogo lo lasciano capire espressamente il libretto e la musica. Forse un finale più sospeso, almeno nell’immagine teatrale, così come sospesa è la domanda finale del Prigioniero “La libertà?”, sarebbe stato più efficace.

Questo non toglie tuttavia un giudizio estremamente positivo su una regia che coinvolge lo spettatore all’ascolto della musica.

Dal punto di vista orchestrale l’esecuzione è stata straordinaria. Daniel Harding ha condotto l’orchestra con grande padronanza, e soprattutto ha saputo ricavare grande chiarezza da una partitura ricchissima di dissonanze, cromatismi, timbri stridenti, coinvolgendo non solo i cantanti, che hanno dato veramente un’ottima prova, ma anche il pubblico, che alla fine dell’opera, dopo alcuni secondi di silenzio, opportuno e assolutamente necessario per esprimere raccoglimento e stupore, ha applaudito con grande convinzione.

La madre era interpretata da Paoletta Marrocu, il prigioniero da Vito Priante, e il Carceriere-Grande inquisitore da Kim Begley.

IL CASTELLO DEL DUCA BARBABLÙ

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Dopo un intervallo un po’ troppo lungo (ragioni tecniche, si dice), la seconda parte della serata è stata dedicata al Castello del duca Barbablù, unica opera di Bartok e capolavoro assoluto.

L’opera è tratta dalla favola di Perrault, ma ne differisce sostanzialmente per due cose: la prima per il forte carattere simbolico, direi di natura freudiana, della vicenda narrata dall’opera; la seconda per il finale: In Perrault, Barbablù viene ucciso dai fratelli della sposa prima che egli riesca a mandarla a far compagnia alle altre mogli uccise; nell’opera le mogli precedenti di Barbablù sono tre e rappresentano i tre momenti della giornata, l’alba, il mezzogiorno e la sera; Giuditta, così si chiama l’ultima moglie, che ha voluto aprire la famosa porta proibita, diventerà la quarta, in rappresentanza della notte.

La drammaturgia è superlativa. L’opera è introdotta da un prologo parlato che ci avverte che il mondo è pieno di storie: fantastiche o reali, amare o felici, che ognuno ha voglia di raccontare e di ascoltare. La storia di Barbablù e Giuditta è una di queste.

Giuditta è intensamente innamorata di Barbablù, e lo segue nel suo castello, un luogo tetro. Ella è convinta che la sua gioia di vivere riuscirà a trasformare il luogo destinato ad ospitare il loro amore, a portare aria, luce e sole, dove ora vi è solo oscurità e umidità.

Nel castello vi sono sette porte nere, minacciose, e per ottenere ciò che ella vuole, queste sette porte dovranno essere aperte.

Giuditta riuscirà a convincere il duca ad acconsentirne l’apertura. Così intraprende un viaggio simbolico all’interno dell’animo della persona amata, che poi lo si può intendere come un viaggio dentro l’animo di ogni uomo.

La prima porta immette in una camera di tortura (simbolo della crudeltà presente nell’animo umano); la seconda porta immette in un’armeria (simbolo dell’aggressività); la terza porta si apre su un tesoro (simbolo della cupidigia); la quarta porta introduce in un giardino (simbolo del gusto per la bellezza); la quinta porta si apre una sterminata campagna costellata di campi e villaggi, la terra su cui il duca regna (simbolo del desiderio di dominio); la sesta porta ci rivela la presenza di un lago di lacrime (simbolo del dolore); la settima porta ci presenta, vestite di ricchissimi manti, le tre precedenti spose. In questo caso il simbolismo si riferisce ad un pessimismo di fondo al quale neppure l’amore può dare risposta. Barbablù, rimasto solo, dopo che Giuditta è andata ad aggiungersi alle altre tre e la settima porta si sarà richiusa dietro di loro, canterà “E ora sarà sempre notte…”.

La musica è straordinariamente bella e significativa. L’inizio è cupo e misterioso come il grande androne del castello: note basse, tenute in pianissimo, sulle quali si stempera un breve frase in timbri acuti, quasi un punto interrogativo. L’atmosfera è dichiaratamente claustrofobica. La musica accompagna gli stati d’animo di Giuditta, che variano dal profondo e quasi deluso stupore per la cupezza del castello, all’entusiasmo con il quale vuole cambiare le cose.

L’apertura delle diverse porte avviene su una musica descrittiva ed evocativa: dissonanze stridenti per la camera di tortura, ritmo marziale con squilli di tromba nell’armeria, musica scintillante nella camera del tesoro, musica piacevole introduce nel giardino, musica di grande respiro e di sapore trionfalistico accompagna l’apertura sulla vasta campagna. In questa prima fase, la musica, dalla cupezza e dai toni bassi dell’inizio, tende ad espandersi e a diventare sempre più luminosa ed espressione di vitalità. L’apertura della quinta porta si potrebbe definire come l’apice della parabola drammaturgica. L’apertura della sesta porta ci riporta ad un clima di ripiegamento su se stessi. La musica diventa lamentosa ed esprime il dolore contenuto nel lago di lacrime. Non a caso l’amore trova alimento proprio dal dolore: e la scena che segue sviluppa un vero e proprio duetto d’amore fra Giuditta e Barbablù. Giuditta è penetrata nell’animo del suo amante fino al recesso più segreto, quello del dolore e si concede a lui senza altre resistenze. Ma l’abbandono non può essere completo. Manca ancora una cosa importante. Com’era il rapporto di Barbablù con le mogli che l’hanno preceduta? Barbablù le impone di non fare domande, ma Giuditta non si dà pace (qui si potrebbe pensare al terzo atto del Lohengrin, la scena nella camera nuziale): accusa Barbablù di non voler rispondere perché le leggende sul suo conto, e cioè che egli abbia ucciso le mogli precedenti, sono vere. E gli impone di aprire l’ultima porta, dietro la quale ci sono sì, le tre mogli precedenti, ma ancora vive e mantenute in una specie di sospensione perpetua. Arrivare all’ultimo, più intimo strato dell’animo umano non giova a Giuditta, che invece di trovare l’amore assoluto trova il baratro. In quest’ultima scena i ruoli musicali si invertono: la parte più lirica è di Barbablù che canta l’amore che ha avuto per le tre donne del passato e quello che ha per quest’ultima donna che, anch’essa sta varcando le soglie del passato.

La musica conclude l’opera riprendendo la misteriosa frase musicale dell’inizio: il mistero rimane tale, e neppure l’amore ha potuto risolverlo.

La messa in scena, sempre di Peter Stein non è da meno della messa in scena del Prigioniero. Anche qui la claustrofobia è l’elemento chiave di lettura. Le pareti del castello di Barbablù, chiuse dietro il giullare che recita il prologo, si aprono e mostrano il grande androne buio, nelle cui pareti si stagliano le sette porte nere, alte fino al soffitto e strette da permettere il passaggio di una sola persona: quattro sulla parete di sinistra, una sulla parete del fondo e due sulla parete di destra; sette minacciose ferite che scandiscono le pareti dell’androne.

Giuditta e Barbablù entrano scendendo da una scala rosso-sangue che viene introdotta da sinistra e successivamente fatta rientrare.

L’apertura delle porte fa scaturire dall’interno una vivissima luce colorata, secondo le didascalie del libretto: rossa per la camera della tortura, arancione per l’armeria, giallo-oro per la camera del tesoro, verde per il giardino. Dopo l’apertura della quarta porta le pareti si spostano e allargano lo spazio della parete di fondo sul quale si apre la quinta porta. Questa, aprendosi, lascia fuoriuscire una nebbia bianca che diradandosi offre la veduta di una vasta campagna, che si estende al di sopra del palmo di una gigantesca mano le cui dita sembrano richiudersi sopra di essa. L’apertura della sesta porta mostra una fessura luminosa sulla quale scendono, come lagrime delle striature scure. La settima porta mostra una luce blu intenso, quasi una luce lunare, dalla quale escono le tre mogli precedenti, nude e ammantate da una ricchissima veste e da ricchissimi gioielli. Le tre donne si avvicinano a Barbablù che canta il suo amore per ciascuna di esse, e conclude il suo canto ponendo su Giuditta un manto stellato e una corona, mentre le tre donne, seguite da Giuditta, rientrano nella settima porta.

Barbablù si sdraia davanti alle porte chiuse mentre l’androne diventa sempre più buio.

Harding ha diretto in moro superlativo, con grande chiarezza una musica molto espressiva e descrittiva. I due protagonisti sono stati molto bravi sia nel canto, sia nei movimenti corporei, dando vita ad una vicenda onirica e affascinante.

I due interpreti sono Gabor Bretz come Barbablù e Elena Zhidkova come Giuditta.

Gli applausi, dopo alcuni secondi di silenzio (devo dire che Harding ha mantenuto una posizione di immobilità invitando il pubblico a non rompere la magia di quel finale) ha fatto calorosissimi applausi, ripetuti poi all’indirizzo di ogni singolo cantante e soprattutto del direttore e del regista.

 

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