L’ESTRANEA, di Elisabetta Rasy

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Anche se, pensandoci bene, il libro è interessante, ricco di spunti che fanno riflettere, il fatto di averlo letto dopo Patrimonio di Roth (entrambi i libri hanno come argomento il rapporto fra un figlio e il genitore ammalato di cancro) non ha certo contribuito a entusiasmarmi. Mi sentirei di affermare che libro di Roth “affascina”, quello della Rasy “interessa”.

Va beh, dato questo giudizio un po’ acido sul romanzo, vale la pena di avvicinarvisi po’ di più.
Intanto la scrittrice ci informa che il libro è fondamentalmente autobiografico, e la chiave di lettura è il rapporto tra la figlia (la stessa scrittrice) e sua madre. E questo rapporto nella sua crudezza si svela in un momento in cui tutti i giochi si scoprono, ed emerge la verità senza gli infingimenti cui la vita, anche con le più buone intenzioni, ci costringe nel quotidiano; cioè nel momento in cui la sofferenza, quella vera, quella fisica, quella profonda, quella che porta in superficie la reale identità, irrompe nella vita.

La madre, ottantunenne, donna forte sia nella salute fisica sia nel carattere, a causa di alcuni sintomi che fanno irruzione all’improvviso nella sua vita, è costretta a fare degli esami che rivelano la presenza di un tumore. Mentre la figlia, sgomenta, cerca di realizzare ed affrontare una situazione nuova, ancora sconosciuta (la prima parte del romanzo è intitolata “In un paese sconosciuto”, cioè la malattia), la madre sembra non rendersi conto della gravità della situazione; anzi il suo comportamento è addirittura più accattivante, più sorridente. Ma l’apparenza inganna. La madre sa, anche se nessuno le ha detto nulla, di avere un tumore.
A questo punto fra madre e figlia si apre una frattura, all’inizio minima (la figlia fatica a comprendere lo stato d’animo della madre) che, col passar del tempo tende sempre più ad allargarsi.

Da una parte la figlia cerca di organizzare quanto di meglio si può fare per combattere la malattia: si rivolge ad oncologi di fama, ascolta il loro parere, richiede consulti, cerca di organizzare ricoveri, cerca di capire se un intervento chirurgico, in una donna ottantenne, possa contribuire ad affrontare e a risolvere, almeno temporaneamente, il problema. Nella figlia il problema è la malattia della madre, e la madre è l’ “oggetto” sul quale si deve combattere la malattia e possibilmente sconfiggerla. Quindi occorre ricorrere ai “protocolli” cioè a quelle procedure diagnostico-terapeutiche che la scienza attuale ha messo a disposizione e che i vari oncologi interpellati asseriscono che offrano le più alte probabilità di ottenere un risultato positivo. Che cosa significhi poi per la persona interessata il termine “positivo” rimane tutto da scoprire.

Dall’altra parte c’è la madre. In una prima fase, quando la malattia è ancora un entità astratta, che non infierisce immediatamente sul fisico, il problema principale è quello della fiducia: e la fiducia si identifica con un medico che con lei riesce ad instaurare un rapporto umano. Quindi niente ricerca del miglior protocollo, niente oncologi famosi che parlano della malattia come se la persona, come tale, non esistesse, e snocciolano solo cifre, statistiche, probabilità. Sulla base di questo diverso avvicinarsi alla malattia, si costruisce un contrasto che la figlia è costretta a subire.

Ma la malattia non è un’entità astratta, e prima o poi la madre è costretta a fare i conti con la sofferenza fisica. Allora ciò che conta non è più la fiducia nei medici, sia pure quelli dal “comportamento umano”, ma la difesa della propria identità che, da una parte la sofferenza, e dall’altra parte coloro che cercano di curarla, la figlia in primis, ma anche i medici (che si fanno sfuggenti), le infermiere e le diverse badanti che di susseguono, minacciano di sottrarle.
In queste nuove condizioni, la divaricazione fra il modo di sentire della madre e il modo di vedere della figlia si allarga ulteriormente.
Davanti alla disperata reazione della madre al progredire della malattia, la figlia cerca di impegnarsi a proteggerla, a combatterne il dolore, cerca soluzioni assistenziali, si scontra con i medici che la trattano con sufficienza. Ma la madre non accetta questo prodigarsi della figlia. La malattia è un suo problema, e lei la combatte come può, cercando di non lasciarsi sopraffare da nessuno: da medici, da infermiere, da badanti, e tantomeno dalla figlia. La sua lotta è fatta di rabbia, di rifiuti (sintomatico il rifiuto di leggere: la Rasy annota: “I libri erano [per lei] un castello fatato di parole dentro il quale era possibile se non combattere il mondo almeno difendersene”), di un ripiegarsi al proprio interno, di respingere qualsiasi intrusione, anche la più innocente. “Io sono la madre: non voglio diventare la figlia di mia figlia” dirà ad un certo punto. E questo dovrebbe essere il momento più profondo della riflessione che ci deve aiutare a capire come il malato, per quanto stravolto dalla sofferenza, per quanto istradato irrimediabilmente verso la morte, mantiene sempre la sua identità che comunque, affetto o non affetto, va rispettata.

Nel libro emergono poi i problemi ben noti alle persone che nella loro famiglie hanno dovuto sperimentare la presenza della malattia: saper a quale medico o a quali istituzione affidare il malato, valutare criticamente le proposte diagnostico terapeutiche, sentirsi spesso sulle spalle responsabilità che dovrebbero essere invece dei professionisti; tutto questo nel rapporto con la malattia. Ma poi c’è anche il rapporto col malato: come dargli le necessarie informazioni, cercare di prevenire la disperazione, combattere i cedimenti, il dolore, e tutti le piccole complicazioni che accompagnano il progredire della malattia. Un impegno che nella maggior parte dei casi prende le persone alla sprovvista, e che giorno dopo giorno esse devono imparare a gestire. E per ultimo i rapporti con il personale di cura, a volte tesi, a volte nello spirito della collaborazione, in altre occasioni, come appare nel libro, fatti di incomprensione. Per chi, come me ha vissuto la propria vita professionale all’interno di questi problemi, la lettura del libro suscita i ricordi di una professione amata.

Ascolta l’intervista a Elisabetta Rasy su Radio3 Fahrenheit.

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