FIGLIO DI DIO, di Cormac McCarthy
Il libro è stato pubblicato in USA nel 1973, quindi 34 anni prima di La strada. Forse Figlio di Dio non raggiunge le vette di quest’ultimo. Eppure lo stile di McCarthy lo si riconosce molto bene.
Il romanzo affronta il tema della solitudine come condizione di vita interiore. Il protagonista è un contadino del Tennessee, Lester Ballard. Espropriato per motivi non specificati della sua proprietà, conduce una vita solitaria nel boschi e nelle montagne della contea di Sevier. Ma la sua solitudine non è tanto e solo una solitudine fisica. È una solitudine che gli fa concepire il mondo, l’altra gente, come qualche cosa di totalmente estraneo: Lester si aggira per il territorio come fosse una bestia selvaggia, che aggredisce e si difende al di fuori di ogni considerazione morale. L’unica legge cui risponde è di soddisfare le proprie necessità.
Quello che emerge è un quadro desolante di un’America primitiva, lontana dalle luci delle DownTown, fatta in primo luogo di violenza, dove i valori morali faticano ad affermarsi, dove bande di delinquenti, come i Cappucci Bianchi, nate ed organizzate per combattere il crimine dilagante, ma a loro volta causa di crimini ancora più brutali, percorrono il paese; dove lo scontro fra bene e male è acutissimo e spesso non è chiaro da che parte stia il bene e da quale stia il male; dove la giustizia ha un forte tanfo di vendetta; dove i rapporti familiari nascondono padri che stuprano le figlie.
In questa America primitiva Lester conduce la propria vita solitaria. È armato di un fucile che sa usare bene, e non esita ad usare con profitto quando gli fa comodo. La sua tana sono le grotte di cui è ricco l’ambiente; il suo cibo è elementare: mais e poco altro, quanto riesce a rubare o a farsi dare per estorsione o minaccia; il fuoco, che si procura cercando legna nei boschi o nelle case più o meno abbandonate, è la sua possibilità di sopravvivenza in un ambiente in cui gli inverni sono gelidi e ampiamente innevati, i fiumi possono straripare e inondare vaste aree e le stesse città; il sesso è per lui un istinto bestiale, che lo porta a giacere con donne morte che egli uccide per procurarsi il materiale, che poi nasconde nelle grotte cercando di utilizzarlo il più a lungo possibile.
La lingua di McCarthy è una lingua scarna, essenziale. Fatti che solo ad essere pensati destano orrore, come gli episodi di necrofilia, o lo stupro di una figlia da parte del padre, vengono descritti con freddezza, oggettività; le espressioni rozze del linguaggio, soprattutto nei dialoghi, rispecchiano per quanto possibile la rozzezza degli eventi. Nel libro manca ogni forma di ricerca di una spiegazione o di una giustificazione. Spiegazione e giustificazione stanno nei fatti e nelle cose. In questo linguaggio diretto, nei dialoghi essenziali, ritroviamo le radici dello stile di McCarthy che in La strada, secondo me, ha raggiunto la perfezione.