L’ILLUSIONE DEL BENE, di Cristina Comencini

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Il titolo mi fa venire in mente la traduzione italiana del libro della Arendt sul processo di Gerusalemme a Eichmann: La banalità del male. Non so se la Comencini ha avuto in mente questo libro, quando ha immaginato un titolo per il suo romanzo. Certamente il tema del male e del bene sono presenti in modo determinante nei due libri: il male del nazismo come degenerata fioritura della concezione burocratico-gerarchica del mondo; il male del comunismo come distorsione di un’utopia: “il male è un caso estremo e fuorviato del bene”.

Il nucleo centrale del libro della Comencini è la storia di un comunista che ha creduto nell’ideologia, che ha militato nel partito, che si è schierato con l’Unione Sovietica nelle controversie internazionali, e che ora, crollato il muro, dissolta l’Unione Sovietica, venute a galla le tragedie umane di cui i regimi comunisti si sono resi colpevoli, è in cerca di una nuova identità. Ma per trovarla non può né rinnegare né ignorare il suo passato e le illusioni di cui si è nutrito, né tanto meno giustificarle.

Mario, il protagonista, è un personaggio ossessivo (alla nascita del figlio si sente così minacciato e così in dovere di proteggere la moglie e il figlio da dormire con un’ascia vicino al letto), e sotto certi aspetti questa sua ossessione finisce per intrecciarsi con la sua angosciosa ricerca di identità.
Il divorzio con la moglie avvenuto poco dopo la nascita del figlio non ha una ragione molto chiara (per la verità anche lui se lo chiede in continuazione, e questa domanda senza risposta è parte della sua ossessione). La moglie da cui si separa è anch’essa di sinistra ma non sembra angosciata dalla ricerca di una nuova identità. Dopo la separazione si mette con un ricco avvocato tendenzialmente di destra e sembra soddisfatta della nuova sistemazione.
Il rapporto di Mario con i figli si pone un po’ come il simbolo del rapporto di una memoria sofferta con le nuove generazioni che non hanno vissuto la guerra fredda e che non capiscono come la politica possa essere (e sia stata) parte integrante della personalità. E non capiscono quindi il bisogno di ricercare un’identità da chi la politica l’ha vissuta nel seno di un’utopia che si è rivelata illusoria.
Sorge allora la domanda, mille volte fatta senza mai ottenere risposta, se le distorsioni, peggio ancora le tragedie di cui si è stati testimoni, siano degli “errori” dell’applicazione di una grande idea, l’idea del bene per tutti, oppure sia l’idea stessa un tragico errore che non poteva non portare alle tragedie di cui si è a conoscenza.
Questi rovelli, che sono l’essenza stessa della nuova personalità di Mario, non vengono capiti. Non dai suoi figli che, sia pure in modo diversificato, vedono la storia appena trascorsa con gli occhi della semplificazione, con la ragione di chi non si sente coinvolto e giudica dall’esterno, e che riduce il tutto a essere fascisti o a essere comunisti (senza sapere che cosa voglia veramente dire essere comunisti), mentre l’unica strada che un ex comunista oggi riesce a percorre è quella della ricerca della democrazia come risposta alla ricerca della libertà.

E questo non può avvenire ignorando l’esperienza trascorsa e i drammatici interrogativi morali che essa solleva. Occorre vivere fino in fondo la contraddizione. Sul piano professionale, ad esempio, non rifiutare, come qualcuno gli consiglierebbe, un servizio radiofonico sulle voci dei dissidenti russi, sui loro racconti, la loro resistenza, le piccole e grandi tragedie che hanno vissuto in un regime oppressivo e spesso criminale, solo perché un servizio di questo genere potrebbe essere strumentalizzato da un governo di destra a fini di mera propaganda politica.
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La storia inizia quando Mario incontra Sonja, una giovane e avvenente fanciulla che suona il piano in un bar e che ha una piccola figlia, Anja. Mario è attratto dalla fanciulla, soprattutto dalla sua storia di profuga dalla Russia. Viene così a sapere che Sonja vive con la nonna in un appartamento multifamiliare. Nella catena familiare discendente manca la generazione di mezzo: la madre di Sonja. Qui la Comencini ci introduce nel mistero, la suspance del racconto. Mario è attratto da questa figura misteriosa, sua coetanea, della quale nonna e nipote parlano poco e malvolentieri. “Elle est morte jeune”, dice di lei la nonna. Mario viene a sapere che Irina, questo è il suo nome, in Russia era una donna di grande intelligenza e attività, che credeva attivamente nel comunismo finché uno spiraglio si era aperto nella sua mente con la lettura di libri proibiti e ottenuti clandestinamente: la consapevolezza del valore superiore della libertà. La scoperta le è costata la pena che molti oppositori al regime hanno dovuto subire: la diagnosi di malattia mentale, il ricovero in strutture manicomiali e la deformazione della personalità. Ma Irina non ha cessato di lottare scrivendo le sue esperienze in quella che diventerà la letteratura clandestina del dissenso un Unione Sovietica, i samizdat.

Le discrepanze sulle date sembrano non convincere del tutto Mario sulla morte di Irina. Così decide di indagare, e frequenta i centri che hanno raccolto la storia del dissenso: a Budapest gli Open Society Archives, e a Mosca il Memorial Center, dove finalmente trova uno samizdat scritto da Irina: si tratta di una commuovente lettera ai compagni dell’Occidente, un drammatico appello perché si conosca l’essenza del regime comunista quale ella lo ha vissuto da quanto ha cercato di penetrare la cortina di oppressiva burocrazia.
Mario dallo samizdat risale alla donna con un rocambolesco viaggio in Usbekistan, ad Alma Ata, e dove si rende conto che se il potere comunista non esiste più, se gli stati hanno ottenuto l’indipendenza da Mosca, in realtà i vecchi burocrati del comunismo, oggi, cambiata la pelle, continuano ed essere i despoti del paese e fanno di tutto per impedire che le loro responsabilità passate, quando erano gerarchi comunisti, possano essere riconosciute.
Il libro chiude il cerchio aperto all’inizio, quando Mario inizia il suo viaggio iniziatico, e il rapporto con Sonja si dimostra impossibile o prematuro. Ora, dopo avere toccato con mano il dolore, quello profondo (la Comencini in un’intervista lo definisce “sulla carne”), il rapporto con Sonja diventerà la naturale conclusione.

Mentre il libro apre una importante riflessione che coinvolge tutti coloro che, almeno in Italia, nel comunismo hanno creduto e hanno militato nel PCI di Berlinguer, e li invita a superare il senso di colpa o di inferiorità, accettare lo svilupparsi degli eventi ed anzi, entrarvi arricchiti da un’esperienza importante; e mentre il libro sviluppa questa riflessione incarnandola in una storia, la Comencini non riesce a farmi superare la sensazione del romanzo a tesi, con una descrizione delle vicende spesso molto artificiali, affogate in discussioni importanti, certo, ma che rallentano la sviluppo della narrazione. Il personaggio principale, Mario ha certamente uno spessore, nel suo tormento, nella sua ansia di sapere e di capire, nella sua ricerca della verità dei fatti, che è anche la ricerca della verità interiore; ma gli altri personaggi sembrano per lo più ombre che fanno da spalla alle riflessioni di Mario, e rimandano un messaggio di sostanziale indifferenza (tranne il figlio minore che sembra capire il messaggio). Anche certe scene, descritte con intento realistico sembrano piuttosto rappresentare immagini cinematografiche che ambientazioni di una vicenda, come ad esempio la giornata passata tutti assieme al mare, oppure l’incontro di Mario con i dipendenti dell’ospedale di Alma Ata, dove Mario diventa un simbolo minaccioso (torna qui un’ascia di antica memoria), etc.
Tutto questo rende il libro faticoso e non tale da destare il mio entusiasmo. Insomma mi sembra di poter dire che la Comencini, come scrittore non riesce a togliersi di dosso la sua vocazione di regista, di donna di cinema. Il romanzo ha bisogno di ben altro ritmo.

La Comencini si è lamentata che il premio Strega, al quale il libro ha partecipato, sia più una lotta fra case editrici che una oggettiva valutazione del valore del romanzo. E considera la vittoria di Giordano se non immeritata, almeno non così scontata. Personalmente non so quanto il peso delle case editrici conti (e in questo caso abbia contato) nella valutazione finale dei libri. Posso però dire che se dovessi fare una graduatoria di valore, non considererei il libro della Comencini degno della vittoria, mentre più che Giordano avrei premiato con la palma il libro di Ermanno Rea, Napoli Ferrovia.

Ascolta l’intervista a Cristina Comencini su Radio3 Fahrenheit

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