IL CALORE DEL SANGUE, di Irène Némirovsky
L’io narrante è un uomo, un vecchio signore, Silvestre, o Silvio, come i più lo chiamano, originario della profonda provincia francese, ma con una vita trascorsa a girovagare e a lavorare in diverse parti del mondo. In vecchiaia torna ai luoghi originari, dove vivono ancora suoi parenti. Il vecchio signore è stato costretto a vendere le sue proprietà e ha perduto tutto. Questo non lo turba più di tanto, ma gli rimane una certa nostalgia quando ripercorre nelle sue passeggiate campi e boschi che un tempo gli appartenevano. La sua vita ora è ridotta a quella di un osservatore solitario delle vicende e della gente del paese, ma tuttosommato gli piace.
Con lui (e con la Nemirovsky) entriamo nelle abitudini e nella vita di un ambiente apparentemente tranquillo, dove la felicità viene intesa come sinonimo di tranquillità, e dal quale la violenza dei sentimenti, compresa la passione amorosa, nel comune sentire sembrano essere bandite. E con lui (e con la Nemirovsky) spiamo con curiosità non solo quello che appare, ma tutto ciò che le apparenze servono a nascondere.
Nessuno sembra più felice dei suoi cugini François e Hélène Érard, sposi da tanto tempo, che passano le loro serate vicino al caminetto, lui a leggere, lei a ricamare. E quella stessa felicità, comune a tante coppie del villaggio, è previsto che si trasmetterà alla loro figlia Colette, che sta per andare sposa con un giovane di buona famiglia, Jean, proprietario di un mulino in grado di fornire la necessaria agiatezza.
Tutto funziona come si deve, almeno alla superficie che si offre agli occhi di un estraneo.
Ma ben presto si scopre che non è così. Una turbativa, che rischia di far emergere fatti e comportamenti gelosamente custoditi, è rappresentata dall’ingresso in paese di una giovane di origini non chiare (e questo per la gente è già un grave segnale), Brigitte. Ella ha sposato un vecchio assai ricco, di salute molto cagionevole. Brigitte, oltre ad essere di origini discutibili, ha anche un carattere indipendente, non tiene conto delle modo di vivere degli abitanti del villaggio, va alle feste da sola, non si preoccupa di ciò che la gente pensa (ma non dice) del suo matrimonio e del suo rapporto col marito.
La gente non parla apertamente, ma dai mezzi discorsi, da allusioni appena sottaciute appare che tutti sanno tutto di tutti. Il quadro che ne risulta è quello di una provincia chiusa, ipocrita, nella quale i rapporti umani rispondono a principi morali solo nella superficie e nella consuetudine quotidiana. Molti, e in particolare i parenti di Silvio, ma anche lo stesso Silvio, si vedrà, hanno passati tormentati, spesso inconfessabili, dove la violenza dei sentimenti contraddice in modo sostanziale il binomio felicità-tranquillità, e si espande in passioni difficilmente o affatto controllabili. Questi passati, tuttavia non sono affatto trascorsi e si proiettano con forza anche nel presente, coinvolgendo i giovani, che, come i loro genitori finiscono per vivere una doppia vita: quella esteriore, di un perbenismo rigidamente morale, e quella interiore e clandestina, non confessabile, ma piena di conseguenze, anche sanguinose.
La prosa della Nemirovsky è fluida, leggera; fin dalle prima pagine lascia trasparire l’ambiguità dell’ambiente, il suo falso moralismo. Il racconto procede per gradi, svelando via via le incrostazioni del passato e il loro rapporto con i fatti del presente, stimolando nel lettore una curiosità crescente, fino agli inattesi esiti finali, anch’essi tuttavia intrisi di ambiguità e non completamente risolti.
Con questo libro la Nemirovsky si conferma come una delle più interessanti scrittrici del Novecento.