I SENTIERI DEL CIELO, di Luigi Guarnieri
Il libro affronta un tema molto delicato, rimasto sepolto per oltre un secolo in un semioblio dalla storiografia ufficiale. Subito dopo l’unificazione d’Italia, nel 1860, le masse contadine meridionali hanno dato vita a una sanguinosa ribellione contro lo stato italiano. La storiografia ufficiale non ha mai parlato di ribellione, ma solo di una forma di banditismo che ha infestato le terre meridionali e contro il quale è dovuto intervenire l’esercito. Il termine “banditismo” o “brigantaggio” di contenuto evidentemente spregiativo, doveva coprire la natura e soprattutto l’estensione del fenomeno, nella retorica dell’avvenuta Unità d’Italia.
Il libro ha come introduzione una famosa frase di Carlo Levi tratta da Cristo si è fermato a Eboli: «Le sole guerre che tocchino il loro cuore sono quelle che hanno combattuto per difendersi contro la civiltà, contro la Storia, e gli Stati, e la Teocrazia e gli Eserciti. Sono le guerre combattute sotto i loro neri stendardi, senz’ordine militare, senz’arte e senza speranza: guerre infelici e destinate sempre ad essere perdute; feroci e disperate, e incomprensibili agli storici».
E di questo effettivamente si tratta quando si nomina la repressione del brigantaggio meridionale: di una vera e propria guerra civile, o forse ancor meglio di una guerra coloniale, che da una parte vede schierato l’esercito italiano (che i contadini meridionali vedevano piuttosto come esercito piemontese: l’Italia era un’entità astratta che veniva usata come strumento del dominio del Piemonte) e dall’altra gruppi di contadini, organizzati in bande, diffusi nelle diverse regioni meridionali, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Campania. Come afferma Carlo Levi, la lotta è stata impari e destinata alla sconfitta delle masse contadine; ma è stata anche molto dura e sanguinosa. L’esercito italiano ha dovuto impegnare quasi tutti i suoi effettivi: si parla di almeno 80.000 uomini. Guarnieri dice che ad un certo momento l’impegno militare è stato tale che se in quel momento l’Impero Asburgico avesse deciso di invadere l’Italia, avrebbe avuto facilmente partita vinta, visto che in pratica quasi tutta la forza militare italiana era impegnata nel meridione.
Le bande ribelli erano molto numerose, e guidate spesso da contadini analfabeti, ma dotati di carisma, e di una notevole abilità a condurre la guerriglia. Esse limitavano le loro operazioni localmente, nelle sedi dove si erano formate, mentre mancava un disegno unitario. Quello che le univa era solo il sentimento di ribellione verso un governo che essi consideravano di fatto straniero e con obiettivi brutalmente coloniali.
Anche i componenti delle diverse bande, pur essendo tutti contadini e quindi persone legate saldamente alla loro terra, avevano provenienza e motivazioni differenti: alcuni erano ufficiali e soldati dell’esercito borbonico, che il nuovo stato aveva disciolto, disoccupati e, nelle condizioni date, a rischio di morire di fame; altri erano contadini che avevano militato nelle bande di Garibaldi, che avevano goduto dei provvedimenti di distribuzione della terra, e che il nuovo governo, appoggiando i privilegi feudali e del latifondo, aveva revocato; altri ancora erano braccianti che si vedevano colpiti e affamati da tasse inique e mai conosciute sotto il governo dei Borbone.
La guerra è stata lunga, in pratica oltre il 1868, sanguinosa e crudele. Il numero di vittime, soprattutto civili, non si conosce poiché le azioni militari erano coperte dal segreto e a nessun giornalista era consentito essere presente alle operazioni. La repressione è stata ferocissima, con distruzione di molti villaggi e spesso sterminio della popolazione; le fucilazioni erano all’ordine del giorno: bastava anche solo un minimo sospetto per far scattare le pena di morte comminata ad libitum dai comandanti dei reparti in azione; dall’altra parte la crudeltà era legittimata dall’odio violento contro gli oppressori. Proprio in queste condizioni, c’è da pensare che sia nato quel Vento dell’odio di cui Roberto Cotroneo parla nel suo libro; forse, nel meditare su questi avvenimenti, si può pensare che sia nato ben prima della guerra di liberazione, e che abbia le sue radici proprio nell’Unità d’Italia, soprattutto come è avvenuta (ammesso che si sia poi realizzata).
La guerra non poteva non essere persa dai contadini meridionali: mancava loro una guida politica, un obiettivo strategico. I Borboni, spalleggiati dagli Spagnoli, hanno cercato in qualche modo di intervenire, procurando finanziamenti e armi. Ma il loro intervento è stato modesto, privo di mordente e soprattutto senza alcuna prospettiva politica. Il tempo della monarchia assoluta era ormai finito, e i Savoia, con lo statuto albertino, avevano ora partita vinta.
Il libro, pur basandosi su un argomento affascinante, e dando molte informazioni al riguardo, si presenta come un romanzo d’azione. In questo direi che la sua riuscita è mediocre. Il libro descrive le peregrinazioni di una squadra dell’esercito italiano guidata dal maggiore Albertis alla caccia di una banda guidata da un leader carismatico, Evangelista Mancuso, detto Boccadoro. La banda aveva compiuto numerosi assassinî nei paesi della Sila, costretto col terrore popolazioni di cafoni a rifornire cibo e armi, e aveva sterminato la famiglia e tutta la servitù di un latifondista, il barone Pietramala. Naturalmente all’origine di questa strage stava il senso di vendetta e di odio contro l’oppressione che il feudatario aveva esercitato contro i suoi servi della gleba, e in particolare contro Evangelista.
Di qui il cruento confronto fra Albertis e Boccadoro.
Il racconto, in modo piuttosto noioso e scontato descrive questa caccia attraverso boschi, colline, monti, fiumi, villaggi della Sila, descrizione corredata da massacri fatti dai banditi (particolarmente truce è la descrizione della tortura e dell’assassinio del figlio del barone Pietramala) e dai soldati italiani, che distruggono un intero paese e ne trucidano tutta la popolazione per evitare che qualche spia li segnali a Boccadoro. Non mancano neppure le descrizioni di scontri armati, fatte con toni vividi, e a me sembra anche compiaciuti, con morti ammazzati da entrambe le parti. E non mancano descrizioni paesaggistiche, di scene di feste campagnole, di abitudini della popolazione calabrese, di credenze magiche, di terapie stregonesche per le ferite d’arma, etc. Insomma motivi militari e motivi folkloristici si intrecciano, come per farci conoscere una Calabria profonda nei suoi aspetti di rivolta ma anche di vita quotidiana, vista con gli occhi di uomini settentrionali, i soldati della quadra del maggiore Albertis.
Questa mescolanza di elementi e soprattutto il contrasto continuo fra il gusto macabro di descrizioni di torture e ammazzamenti, di scontri militari con dettagliata descrizione delle ferite, e la descrizione di aspetti più pacifici della vita quotidiana dei cafoni calabresi, o dei paesaggi naturali di una Sila selvaggia e scarsamente popolata, non crea quell’unità di cui avrebbe necessità un vero romanzo d’azione, dove azione, popolazione e natura si fondono in un’unica visione come elementi necessari l’uno all’altro. Nella sua intervista Guarnieri cita McCarthy, ma a me sembra di non dire una sciocchezza se sostengo che quelli di McCarthy, anche se in alcuni romanzi privi di aspetti particolarmente violenti come si trovano ne I sentieri del cielo, sono realmente romanzi d’azione, dove l’unità narrativa esiste realmente.
I personaggi del romanzo hanno un contorno piuttosto vago e a una sola dimensione. Albertis è un ufficiale tutto d’un pezzo, freddo e indifferente agli ammazzamenti, e perfino alle stragi se queste hanno una ragione militare, rattristato fino a un certo punto anche dalla morte dei suoi uomini, chiuso alla cultura, alla musica, alla storia delle popolazioni contro le quali sta combattendo, etc. Boccadoro è un evento lontano, quasi un fantasma, e comparirà nel romanzo solo in pochissime occasioni, anche se la sua presenza è continua. Gli altri personaggi sono i militari della squadra: il capitano Spada, uomo onesto e fedele, il Tenente Ranieri, figlio di un feudatario meridionale che nel corso dell’azione militare si sta rendendo conto dei torti che la sua classe fa ai servi della gleba, il tenente Gaetani, medico con velleità scientifiche di tipo lombrosiano, e via via sergenti, caporali e soldati, ciascuno con una personalità accennata.
Il libro si conclude in modo abbastanza scontato, almeno per quanto riguarda la lotta fra Albertis e Boccadoro. Quella che rimane sospesa è la conclusione di una guerra coloniale che, a quanto si può osservare ancora oggi, continua, anche se con mezzi e schieramenti forse un po’ differenti.