DON CARLO, alla Scala

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Ieri sera, finalmente ho visto il discussissimo Don Carlo scaligero. Confesso che ero un po’ prevenuto dopo avere visto la trasmissione televisiva in diretta. La rappresentazione TV mi era sembrata piuttosto piatta. L’opera, che per me è molto emozionante con quelle passioni intrecciate: quella amorosa, quella politica, quella religiosa, l’amicizia virile, etc., in quel contesto mi aveva lasciato piuttosto freddo. La scenografia mi pareva scialba, i cantanti poco immersi nei rispettivi ruoli, l’unico che mi aveva un po’ scosso era stato Furlanetto nella parte del re, non solo per il canto, ma anche per il modo di muoversi sulla scena. E anche la direzione d’orchestra non mi sembrava sottolineare con l’enfasi necessaria i momenti salienti.

Ebbene, vista dal vivo, l’opera si è dimostrata tutta un’altra cosa. La mia attenzione è stata attratta in modo forte fin dalle prime battute: lo stupendo, lontano, coro di frati che sembra provenire dalle tenebre, per continuare poi con l’aria del tenore, il duetto dell’amicizia virile fra Don Carlo e Rodrigo, e via via tutta la durata della rappresentazione. Non riesco a immedesimarmi nei giudizi sprezzantemente negativi che ne sono stati dati da più parti, a partire da Stinchelli e Suozzo, ma anche in post comparsi sulla mailing-list di Opera seria. Posso capire questi giudizi da chi ha visto l’opera solo sul teleschermo. Ma i fischi sentiti distintamene alla prima erano di persone presenti in sala. Forse, come qualcuno afferma, erano diretti all’indirizzo del direttore per la questione del cambio improvviso del tenore. Qui, tuttavia non entro nel merito. Ne è stato discusso anche troppo, e tutto sommato la cosa mi interessa fino a un certo punto.

Ma torniamo alla rappresentazione sulla scena.

Intanto la scenografia. Personalmente mi dà un certo fastidio la definizione di “minimalismo” alle scenografie povere di arredi. In questo Don Carlo il regista, secondo me ha inteso far concentrare l’attenzione dello spettatore sui personaggi e sulle loro azioni. In tal modo da una parte ha cercato di dare allo spazio una organizzazione funzionale alla tensione del momento, dall’altra ha ricreato la pompa e il barocchismo di un ambiente spagnoleggiante rivestendo interpreti e comparse con costumi sontuosi, di svariata foggia, ma tutti ispirati ai quadri cinque-seicenteschi.

Per esempio, già nella prima scena, il chiostro del convento di San Giusto, la scena è uno spazio al cui centro un parallelepipedo bianco indica la tomba di Carlo V e sul fondo della scena dodici rettangoli bianchi su una parete nera disposti ritmicamente rappresentano delle misteriose porte. Il coro di frati in un elegante ma anche vagamente tremendo saio bianco e nero entra lateralmente e ogni frate si pone davanti a una delle porte bianche. L’immagine complessiva, di forte simmetria, di grande eleganza in un bianco e nero intensamente luminoso, rispecchia molto bene la solennità della musica di quel momento: “Carlo il grande imperator”. L’immagine televisiva invece è scialba, poco illuminata, il bianco e il nero non hanno quell’impatto, dato soprattutto dalla luce, che invece all’interno della sala si vede sul palcoscenico.

Sullo sfondo, dopo che i frati si sono allontanati, e entra Don Carlo, la parete di fondo viene sostituita da un’immagine (proiezione? gigantografia?) di un bosco. Ovviamente si tratta di un riferimento alla foresta di Fontainebleau e alla dolce terra di Francia dove è sbocciato l’amore fra Don Carlo e Elisabetta.

Diventerebbe troppo lungo descrivere tutte le scene. Mi limiterò a qualcuna: La seconda scena, quella del giardino, è anch’essa molto bella. La parete di fondo, che nella prima scena era immanente e dava il senso della solennità con le sue porte e la teoria dei frati, qui si allontana e perde la solennità del bianco e nero, per lasciare che le pareti laterali siano percorse da due file di alberi di un bel verde, mentre lo spazio in mezzo è bianco, come bianche sono le vesti della fanciulle che lo invadono. Anche in questo caso l’illuminazione intensa e chiara dà alla scena quella vivacità e quell’allegria che rispecchia molto bene la musica. Nell’immagine TV la scena appare spenta, gli alberi laterali sono questi incolori. Nulla a che vedere con la scena vista in sala.

Si può citare la scena dell’autodafé, tradizionalmente costruita con grande sontuosità e sfarzo. In questa versione la sontuosità non è data dalle architetture, ma dalla disposizione dei cantanti e delle masse. Filippo è già in scena fin dall’inizio, seduto su uno scranno in primo piano a sinistra, mentre simmetricamente, in primo piano a destra si situano i frati, sempre incappucciati da quel loro saio bianco e nero, che cantano “Il dì spuntò, dì del terrore”. Le pareti laterali sono di fatto costituite da una teoria di persone in abito cardinalizio: rosso e bianco. Al centro la folla, trattenuta da guardie armate di alabarda. Sul fondo una serie di pali (un po’ il ricordo delle porte bianche del chiostro di San Giusto) ai quali verranno legati gli eretici, con i loro cappelli a cono e la loro disperazione. La sontuosità della scena poi si arricchisce della sfilata dei nobili, tutti in elegantissimi e sfarzosi costumi spagnoleschi. La scena risulta movimentata, sontuosa, coloratissima, con un’illuminazione accesa. Nella prima parte, fino all’intervento del re, la luminosità è un po’ attenuata da un velo trasparente che separa il primo piano (re a sinistra e frati a destra) dalla folle, cardinali, guardie, eretici, etc. Quando il re prende a cantare (nelle scene tradizionali, quando esce dalla porta del tempio) il velo si alza e tutta la scena viene illuminata intensamente e i colori appaiono in tutto il loro splendore. Tutto questo per TV non appare assolutamente e la scena appare piatta e povera.

Nel finale il rogo al quale sono condannati a morire gli eretici viene raffigurato da una intensa luce rossa. L’unica cosa secondo me criticabile è che, mentre una voce di soprano canta “Volate verso il ciel”, il bambino che raffigura Don Carlo viene sollevato al cielo. Mi è sembrato un po’ kitsch.

Già, c’è il problema dei bambini, da molti criticato. I bambini rappresentano, ciascuno, uno dei personaggi principali in momenti che potrebbero essere ricordi, o attimi di innocenza, etc. Si riconoscono in quanto indossano gli stessi costumi dei protagonisti: Don Carlo, Rodrigo e Elisabetta. Anche a me questi bambini sono sembrati una forzatura pleonastica. Ma non mi sentirei di condannare la regia per questo particolare.

La direzione orchestrale: l’ho trovata piuttosto piatta nella registrazione TV. In scena ha assunto tutt’altro spessore. A me sembra che le scene siano importanti anche per l’ascolto della musica. Ad esempio la simmetria della prima scena sottolineando la solennità della musica, la fa meglio apprezzare. Così nella scena dell’autodafé: i colori, i costumi sontuosi e il loro contrasto con le tonache bianche e nere dei frati, accende oltre che la vista, anche l’ascolto (parlo da spettatore ignorante, non certo da esperto musicista). Una scena opaca toglie la necessaria valorizzazione anche all’ascolto, e tutto si appiattisce. Bellissima ho trovato anche la scena iniziale del terzo atto: uno straordinario assolo di violoncello ci introduce di notte nella stanza di Filippo. La stanza non ha arredi, a parte lo scranno su cui è seduto il re. Le pareti sono nude, color celeste intenso all’inizio, man mano che l’alba avanza si schiariscono. Tutta l’attenzione è concentrata sul’aria che Filippo canta: un’aria commuovente, bellissima. Anche la scena successiva, quella del duetto col grande inquisitore va vista nella stessa ottica di intensa emozione.

I cantanti. Se pensiamo alle voce, io, come non vociologo, ho apprezzato il tenore, Stuart Neill. Bella voce, chiara, limpida, fresca. Di buon livello mi sono parse anche le voci della Cedolins, della Zajick e di Dalbor Jenis. Nella rappresentazione di venerdì Filippo è stato interpretato da Matti Salminen al posto di Furlanetto, mentre l’inquisitore è stato sempre interpretato da Kotscherga.

Quello che secondo me è un po’ mancata nei cantanti è stata la recitazione, il recitar cantando. Neill, grande e grosso, un po’ “uoviforme”, era molto immobile, e negli spostamenti assai goffo. La Zajick mi sembrava più a un concerto che interprete di un personaggio. Il suo movimento della manina destra di accompagnamento al canto era francamente un po’ “stantio”. Rodrigo, era immobile quanto se non più di Don Carlo, a parte gli abbracciamenti di rito. Anche la Cedolins non mi sembra che abbia brillato sul piano della recitazione. Per quanto riguarda il re, Salminen mi ha fatto rimpiangere Furlanetto, che nella registrazione della prima mi è sembrato l’unico che si sentisse veramente Filippo. Su Kotscherga è stato detto di male e di più. Forse con qualche esagerazione.

Dopo di ogni scena ci sono stati molti applausi. A scena aperta solo dopo l‘aria di Filippo nel terzo atto e dopo la cantata del velo nel primo.

Alla fine gli applausi sono stati entusiasti e prolungati. Condivido. La rappresentazione, checché ne dicano i grandi intenditori, è stata molto bella: più intensa e meglio interpretata di quella mutiana del 1991.

 

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