IL CONTINENTE INVISIBILE, di Jean-Marie Le Clézio
Le Clézio con questo libro ci porta nell’oceano Pacifico. È questo il continente invisibile, fatto da migliaia di isole, la Melanesia, la Micronesia, sperdute in un mare vasto quanto un terzo della terra. Sono isole abitate da una popolazione che ha sviluppato una cultura, che ha propri mezzi espressivi, linguaggi di varia e diversa natura. Lo scrittore riporta le diverse teorie su come queste isole siano stata popolate, e da dove provenga la loro popolazione. Egli pensa comunque che la gente sia arrivata in quei posti con una precisa determinazione, spesso per lasciarsi alle spalle una terra inquieta, in preda a guerre, a catastrofi di vario genere.
Non a caso uno dei primi capitoli immagina la storia di una famiglia, che su una piroga attrezzata e ben rifornita di acqua e di cibo attraversa il mare, navigando giorni e giorni, affrontando tempeste e sole bruciante per allontanarsi dalla grande terra in cui avevano vissuto fino al giorno prima, cacciati dalla impossibilità di sopravvivervi. Ma non fuggono a caso. Sanno dove andare, e vi arrivano quando ormai le scorte sono finite, la sete, la fame, la fatica stanno per avere il sopravvento. È l’isola oggi nota come Pentecoste (in lingua locale Raga). Un isola dell’arcipelago delle nuove Ebridi, nel cuore del Pacifico, poco lontano dalla Nuova Caledonia, dalle Isole Fiji.
Le Clézio ripercorre il viaggio e sbarca sull’isola, e la visita guidato da una donna, Charlotte Wèi Matansuè, che nell’isola ha fondato un’associazione femminile, l’associazione delle tessitrici di stuoie di fibre, un’associazione nata per preservare una delle eredità culturali più importanti dell’arcipelago.
La visita dello scrittore diventa così un’occasione non solo per descrivere una natura che gode ancora di molti degli aspetti dell’incontaminazione, ma anche per raccontare le dure vicende che le popolazioni hanno dovuto subire da un colonialismo aggressivo, crudele, privo di scrupoli.
Oggi l’isola appartiene allo stato indipendente di Vanuatu, sorto sulle isole dell’arcipelago delle Nuove Ebridi. Nell’isola l’interno è montuoso, i villaggi sono disseminati in radure fresche e verdi. Le capanne hanno le pareti di canna e i tetti di foglie. In ogni villaggio c’è una capanna molto più grande dove si riuniscono solo gli uomini per raccontarsi storie, fumare e bere la kava, un estratto di radici con un certo potere psicotropo.
I miti: una delle cose che hanno affascinato Le Clézio è il racconto dei miti: il mito che spiega perché a Raga non ci sono vulcani mentre sull’isola vicina Ambrym sì; oppure il racconto di come la religione cristiana è stata portata in quelle isole; o come la religione cristiana viene interpretata, al di fuori delle regole del cattolicesimo o dei vari protestantesimi, e dove Cristo è uomo fra gli uomini; o il mito della creazione della donna, tanto per citarne alcuni.
Gli abitanti sono gente pacifica, che vivono nella loro terra quasi ignorando tutti i problemi che pone il mondo di fuori. Le donne sono dedite alla tessitura delle stuoie di fibre, che assumono aspetti, forma e colore diversi a seconda dell’uso; e che in questa parte del mondo, dove la moneta è ancora quasi sconosciuta e il baratto è ancora alla base dell’economia locale, ha il valore di merce di scambio.
Le Clézio, poi, dopo aver narrato l’arrivo all’isola dei prima abitanti, ci narra aspetti della loro vita, come la crescita dei giovani e il loro ingresso nel mondo degli adulti, le differenze e anche le ostilità fra le varie etnie che abitano terre diverse nella stessa isola; l’importanza dei maiali nella loro vita e la crudele abitudine di usare come simbolo rituale le mascelle di queste bestie dopo un trattamento particolare.
Alle spalle nella storia di questa gente ci sono gli orrori del colonialismo inglese o francese e della schiavitù. Si stratta soprattutto del blackbirding, cioè delle razzie che le navi dei bianchi dominatori facevano in quelle isole, catturando i maschi e violentando le femmine. I maschi venivano poi trasferiti come schiavi nella miniere della Nuova Caledonia, o nelle piantagioni di cotone e di tabacco delle isole Fiji. Pur in presenza di severissime leggi che proibivano il commercio e il trasporto di esseri umani, le navi negriere avevano vita facile. Questa è una delle cause, ci dice Le Clézio, del motivo per cui gli abitanti di quelle isole popolano l’interno e disertano le coste. Per abitanti pacifici, la comparsa di una vela all’orizzonte era il segnale di sventura e tragedia. L’altra causa dipendeva soprattutto dal fatto che nelle coste imperversa la malaria, malattia che in quelle popolazioni fa molte vittime. Altre vittime sono state dovute alle epidemie di colera, peste, etc. importate dalla colonizzazione.
Il linguaggio con cui è scritto il libro è un linguaggio leggero, quasi in punta di piedi, quasi sottovoce, come se lo scrittore avesse paura, usando un linguaggio più realistico, di turbare una cultura fragile, ma antichissima e, ancora oggi, decisa a resistere al di là del fragore del modo esterno, quello che è stato dei blackbirders, e che oggi è quello del turismo invadente, degli affari, del consumismo.
Le Clézio si esprime con un grandissimo rispetto verso quelle genti e la loro cultura, e il linguaggio che usa è quello che in maggior misura questo rispetto esprime.
Ancora una volta lo scrittore premio Nobel si occupa “dell’umanità oltre e sotto la civiltà dominante“, ma lo fa in modo diverso dai romanzi, come Stella errante e Le due vite di Laila. Qui entra egli nella terra, il continente invisibile, e ci accompagna in tutti i risvolti della vita e della cultura di un popolo alla ricerca della felicità che una natura ancora generosa, nonostante i tentativi di distruggerla dei colonizzatori, offre loro.
Leggi la lezione di Le Clézio alla consegna del Premio Nobel (dicembre 2008)